E alfin l'amore
Milano. “Pare insomma che l’unico pensiero progressista e comunque l’unico pensiero progressista sul matrimonio… riguardi la rapidità con cui far entrare nel matrimonio le persone omosessuali e farne uscire i divorziandi”. E che viceversa “l’unico apporto conservatore sia la difesa del traditsionnyy brak (il matrimonio tradizionale in russo) che fornisce alimento alla violenza omofoba palese e occulta”. Siccome Alberto Melloni è uno spirito caustico, un polemista sottile che ama ribaltare i (pre)concetti degli altri, ha molto apprezzato anche la battuta di un “vecchio parroco italiano” degli inizi del XXI secolo: “Oggi si vogliono far prete solo le donne, vogliono figli solo quelli che non possono averne, e vogliono sposarsi solo le persone omosessuali”. Siccome Alberto Melloni è innanzitutto uno storico, il paradosso del vecchio parroco lo distende su un percorso di secoli e prova a rintracciare i motivi che lo hanno generato. Pratica utile per dare prospettiva a ciò che è sotto gli occhi di tutti, e da cui di solito facciamo derivare un senso di (laico) spaesamento per l’inconsistenza dell’occidente, o un senso di cristiano sgomento per la fine di ogni cristianità. Come dire: non si arriva a un mondo in cui la totalità delle persone crede a una certa idea plurale e indefinita del rapporto d’amore, e in cui la quasi totalità delle persone non crede a quello che ne pensa la chiesa, per un caso. Forse c’entra anche quello che la chiesa ha pensato (e pensa) del matrimonio, della famiglia, dell’amore.
“Amore senza fine amore senza fini”, l’ultimo libro di Melloni (Il Mulino, 144 pp., 12 euro) non è l’ennesimo pamphlet di marca cattolica tra i tanti che s’incaricano di alimentare (solitamente soffocano, di noia) il dibattito al vasto tema del Sinodo sulla famiglia, nonché la rissa politico-culturale e lessicale che divide l’occidente a proposito di matrimonio, famiglia, amore. E’ invece un breve ma denso saggio il cui sottotitolo, “Appunti di storia su chiese, matrimoni e famiglie”, gioca civettuolo a sminuire la tosta solidità dell’impianto e la abrasiva polemica ecclesiale che ci sta sotto. Come definirlo? Se dovessimo stare alle vulgate della vaticanistica, è molto kasperiano, bergogliano. E, ça va sans dire, roncalliano. Insomma, ci si aspetta di trovare tesi opposte a quelle esposte di recente dal cardinale Carlo Caffarra sul Foglio: “L’edificio del matrimonio non è stato distrutto; è stato de-costruito, smontato pezzo per pezzo. Esistono ancora tutte le categorie che costituiscono l’istituzione matrimoniale: coniugalità; paternità-maternità; figliazione-fraternità. Ma esse non hanno più un significato univoco”. E infatti le tesi opposte si trovano, una punzecchiatura qua e un giudizio tranchant là. Ma le cose più interessanti sono altre. Sono certi carotaggi effettuati tra storia e teologia che illuminano i problemi anche per chi osservi da una prospettiva non religiosa. Da dove viene l’insistenza che la chiesa cattolica (“latina”, preferisce dire lui) pone, e non da ieri, sulla “famiglia” (Melloni, con un’insistenza polemica non innocente per tutto il libro mette la parola magica tra virgolette)? Famiglia e matrimonio come li intende la chiesa non sono enunciato biblico, argomenta, e nemmeno evangelico. Anzi, Gesù “relativizza” proprio quei valori che millenni dopo diventeranno “non negoziabili”.
Gesù chiede “di odiare il padre e la madre”, “condanna allo stesso modo l’adulterio e la condanna dell’adulterio”. E’ nel corso dei secoli che la chiesa passa “da un dettato evangelico relativista in materia di famiglia, all’uso di figure giuridiche romane”. Ma se è così (Melloni crede sia così), “nel momento in cui tramonta l’impianto ‘costantiniano’ della famiglia”, la chiesa potrebbe finalmente “tornare allo scandaloso annuncio di Gesù”. Anche il mantra della famiglia “cellula della società” è, a ben studiare, moderno e di origine secolare. E’ la monarchia assoluta francese a scrivere che “i matrimoni sono il seminativo degli stati, la fonte e l’origine della società civile e il fondamento delle famiglie”. Se il matrimonio cristiano aveva assunto dal diritto romano figure e linguaggi, in “regime di modernità” quei princìpi “migrano pressoché intatti in modernità”. Tanto che pure nel Codice napoleonico del 1804 il matrimonio rimane orientato alla quiete sociale e alla cura della prole che può discenderne”.
[**Video_box_2**]Melloni sorvola (tacere è un giudizio polemico) sulla probabilità che, in due millenni, il matrimonio cristiano abbia prodotto anche qualcosa di buono. No, è stato nient’altro che maschilista sopraffazione e violenza negatrice della condizione omosessuale, così come la scelta del convento fu per le donne soprattutto rifugio omosessuale e fuga dalla schiavitù della maternità. Ma non è delle percentuali di ragione di questi giudizi, né dell’attendibilità in via esclusiva di una lettura evangelica per cui Gesù non è interessato al matrimonio, che interessa parlare. E’ invece interessante quanto lo storico segnala come una trappola da cui non si esce, e che fa diventare violento, caricaturale a tratti, il movimento (universale) che chiede da un lato la fine del matrimonio tradizionale e dall’altro un matrimonio esattamente uguale, “tridentino”, perfino: “Quando finisce il regime di cristianità e il regime di modernità introduce il matrimonio ‘civile’, esso non cerca neppure di dotarsi di una propria filosofia”. Fino a paradossi laceranti: “La tesi secondo cui il fine del matrimonio era la generazione della prole è entrata così in profondità nella coscienza occidentale da trasformare il fine in un diritto. Un diritto che la società deve assistere medicalmente, nel caso di patologie impedienti, o giuridicamente, nel caso delle coppie omosessuali”. Ma se l’insegnamento della chiesa sul matrimonio è solo un portato storico, perché non assumere che questo tempo è occasione (“segno dei tempi”) per ritornare “alla potenza evangelica di relativizzazione del matrimonio”. La chiesa “ha saputo fornire tutto al discorso ‘moderno’ sulle nozze, eccetto il perdono che è il cuore del Vangelo”. Se ora trovasse “l’umile audacia di dipanare la matassa della relazione… accettando con serenità la temporaneità delle proprie risposte”, di uscire “dalla prigione dorata del suo diritto” per dire “con il linguaggio dell’Evangelo che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore, allora anche il discorso pubblico sui diritti delle famiglie potrà giovarsene”.