Il 2 aprile, 180 studenti cristiani furono trucidati da miliziani somali di al Shabaab

Contro i pavidi

Corano a catechismo

Matteo Matzuzzi
“Basta girare attorno alla questione delle persecuzioni cristiane. Stiamo assistendo a un’allarmante crescita dell’islamismo. Noi siamo minacciati in quanto cristiani, e le istituzioni non ci difendono”. Mons. Anthony Muheria, vescovo di Kitui, diocesi di quel Kenya se la prende con le coscienze addormentate.

Roma. “Basta girare attorno alla questione delle persecuzioni cristiane. Stiamo assistendo a un’allarmante crescita dell’islamismo. Noi siamo minacciati in quanto cristiani, e le istituzioni non ci difendono”. Il politicamente corretto non s’addice a mons. Anthony Muheria, vescovo di Kitui, diocesi di quel Kenya che ancora è sconvolto dalla mattanza del 2 aprile scorso, che se la prende con le coscienze addormentate incapaci di accorgersi di quel che avviene sotto i loro occhi, tra decapitazioni e roghi e persecuzioni, dal vicino e medio oriente all’Africa. Quel  2 aprile che segnerà la storia della città di Garissa, miliziani somali di al Shabaab eliminarono 150 studenti, chi a colpi di pistola, chi decollato, dopo averli salomonicamente divisi: cristiani da una parte, musulmani dall’altra. I primi da macellare, i secondi da salvare.

 

[**Video_box_2**]Ecco perché oggi, i vescovi kenioti stanno meditando di spendere le ore del catechismo per inculcare nella testa dei fedeli alcuni elementi fondamentali del Corano, da saper ripetere a memoria nel caso un jihadista armato di coltellaccio chiedesse – in cambio della sopravvivenza – il nome della madre di Maometto. Ci vogliono chiarezza e coraggio, dice il monsignore secondo quanto riportato dal portale Crux nella ricostruzione di John Allen. Chiarezza e coraggio nell’ammettere che l’obiettivo di al Shabaab è quello di “fare dell’Africa un continente interamente musulmano”. Con il beneplacito – dice – anche di certi “islamici moderati che provano simpatia per quegli intenti”. E questo nonostante si ripetano gli appelli al dialogo, come dimostra la dichiarazione diffusa mercoledì dal Pontificio consiglio che si occupa di questioni interreligiose, guidato dal cardinale Jean-Louis Tauran.

 

A essere distorta, sostiene il vescovo Muheria, è la prospettiva con cui dall’Europa si guarda ciò che accade nelle terre preda del jihad: non tutti i pesci che finiscono nella rete dei fondamentalisti sono, infatti, poveri e disperati. Si pensi, ad esempio, che uno dei terroristi attivi a Garissa era il figlio di un funzionario governativo, descritto come “un bravo studente di legge con un sicuro futuro professionale”. Coraggio, ci vuole, anche nel sottolineare che la matrice dell’attentato a Garissa era solo e soltanto religiosa. Invece, dal governo di Nairobi s’è parlato genericamente, dice il presule, di “attacco contro tutti i kenioti”. Sono tutte “cortine di fumo” alzate “per evitare di dire che a essere minacciati sono i cristiani. E’ ora di smetterla di girarci attorno. Non sono le minoranze a essere trucidate. Sono i cristiani”, quasi urla all’indirizzo dei tanti perbenisti che s’affollano nel precisare, minimizzare, differenziare e soppesare parole e verbi e aggettivi per non scontentare qualche potenziale interlocutore al di là del mare. C’è, nelle parole di mons. Muheria, anche la frustrazione di chi ha visto la sfilata di presidenti e primi ministri per le vie e le piazze di Parigi dopo la fusillade nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, mentre a Garissa, dinanzi a 150 corpi martoriati di studenti, ha assistito all’assenza di analoghi moti d’indignazione e orrore: “Non un solo capo di stato è venuto qui”, ha osservato Muheria, aggiungendo che, probabilmente, non tutte le vite “hanno lo stesso valore”.

 

 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.