Parigi non vale una messa
Questione di metri e di stazza, insomma. Se la statua non fosse stata così “vistosa”, se l’arco a sormontare il volto rotondo di Giovanni Paolo II non fosse stato così largo, se quella croce non fosse stata messa in cima, ecco che allora il monumento non avrebbe infranto le rigorose leggi del 1905 sulla separazione tra stato e religione. Ma visto che l’opera artistica ha una croce e che chiaramente rimanda al culto cattolico, va ridotta in pezzi. Rasa al suolo. Senza alcuna intenzione di darsi, poi, alla meritoria e paziente tecnica dell’anastilosi. Nulla di nuovo, sia chiaro: c’era già stata la candida statuina della Vergine Maria rimossa da un parco pubblico dell’Alta Savoia e la battaglia sui presepi allestiti nei municipi della Vandea. Non si può, stabilirono i tribunali amministrativi: l’esibizione di simboli religiosi non è ammessa. Il presepe andava rimesso negli scatoloni chiusi con doppio strato di nastro adesivo. E pazienza se su quei simboli poggia una bella fetta di storia francese, la vecchia figlia prediletta un po’ appesantita e imbolsita, quella che contempla i re unti e taumaturghi capaci di guarire i poveri e di sanare le piaghe in nome d’un potere derivante direttamente da Dio. Adesso si litiga perfino sulla possibilità di ricostruire, come era una volta, la guglia di Saint-Denis frantumata da un fulmine in una notte tempestosa, nel pieno Ottocento. C’è chi dice che non ne valga la pena, che costa troppo; altri sostengono che non si può adottare il metodo-Disneyland. Altri ancora, forse, si staranno chiedendo cosa accadrebbe se un magistrato decidesse che pure la guglia ricostruita “è troppo vistosa”.
Il canovaccio segue, dettagli a parte, quello messo in atto dai folli barbuti di Mosul, che annoiati e mentalmente disturbati dalla loro ideologia perversa, hanno passato gli assolati pomeriggi d’inizio primavera a prendere a picconate le lapidi del cimitero cristiano cittadino. Non prima, naturalmente, d’aver buttato giù dai campanili le campane, divelto le croci dalle cupole delle chiese locali, profanato e dissacrato cappelle e monasteri. Ci si allarmava, un paio d’anni fa, quando l’allora ministro dell’Educazione, Vincent Peillon, credendosi una sorta di Napoleone reincarnato, puntava a “sostituire la chiesa cattolica” con una non meglio precisata “religione repubblicana”, visto che “non si potrà mai costruire un paese libero con la religione cattolica”. Oggi pare che il programma per il ritorno al passato, ai gloriosi tempi delle teste infilzate sulle picche e delle ghigliottine rivoluziona- rie dalla lama affilata, stia ingranando la marcia. Mancano giusto i preti buttati in galera e la trasformazione di Notre Dame in magazzino e ritrovo per assemblee illuminate. Il resto del quadro è più che completo.
Il paradosso è che mentre in patria i cristiani vengono ghettizzati in nome della più pura neutralità, le drapeau tricolore viene piantato qua e là nel vicino oriente, vecchia regione di mandati coloniali, con l’intento dichiarato di proteggere i nazareni costretti a lasciare averi, case e affetti in quella che da sempre è la loro terra.
Il 30 luglio scorso, salutando il nuovo presidente iracheno, Fuad Masum, François Hollande arrivò a esprimere “grande preoccupazione in merito alle persecuzioni di cui i cristiani, componente essenziale della Repubblica dell’Iraq, sono oggetto da parte dei gruppi di terroristi”. Sottolineando, inoltre, “l’imperiosa necessità di assicurare la tutela delle minoranze, per permettere loro di restare nel paese come desiderano, e preservare la ricchezza e la diversità dell’Iraq”. Solo qualche giorno fa, poi, lo stesso inquilino dell’Eliseo assicurava al patriarca di Antiochia dei maroniti, il cardinale libanese Béchara Boutros Rai, “il suo fermo impegno a proteggere” i cristiani d’oriente. Il fatto è che la Francia, “si è stancata di difendere la propria identità e le proprie radici, e sembra sempre più fondata sulla vacuità”, ha scritto la filosofa Chantal Delsol. Charles Adhémar, docente di Scienza politica e membro dell’Istituto di formazione politica, ha scritto sul Catholic World Report che in questa vacuità, nella noia esistenziale ben testimoniata dal curato di campagna magistralmente ritratto da Georges Bernanos, i francesi sembrano non essersi accorti che a farsi largo è stato l’islam. Con le moschee e i minareti dalle geometrie più o meno moderne, con i negozi di burqa negli arrondissement parigini e le proposte d’insegnare in arabo nelle scuole pubbliche francesi. Prepontentemente, mentre altrove si di- batteva di crocifissi da esibire e di vietare alle maestre d’asilo di nominare agli infanti il nome di Gesù, Buddha, Visnù, Calì e così via. Per non turbarli, aveva precisato la senatrice Françoise Laborde, autorevole esponente del Parti radical de gauche. Perfino l’Osservatore Romano era intervenuto con un commento sulla proposta di legge, osservando che se il testo “passasse così com’è, non solo gli asili privati ma anche organizzazioni giovanili come gli scout dovrebbero sottomettersi all’obbligo di neutralità religiosa per beneficiare del sovvenzionamento pubblico”.
Aveva ragione il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione e primo vescovo d’occidente a mettere piede nella piana di Ninive divenuta terreno per le scorribande dei jihadisti islamisti, a osservare che “dietro la parola laicità si nasconde spesso un certo odio per la religione”. Va bene che la repubblica sia laica, insomma. A essere sbagliata è la “mentalità laicista”. Nel dicembre del 2007, l’ex presidente Nicolas Sarkozy, all’apice del suo splendore, aveva promosso nella solenne cornice di San Giovanni in Laterano (di cui era protocanonico) “l’avvento di una laicità positiva”, vale a dire una laicità che non considera le religioni come un pericolo, quanto “un punto a favore”. Una laicità che – diceva sempre Sarkozy – “non può essere negazione del passato”, non può “tagliare la Francia dalle sue radici cristiane”. Da vero profeta aggiunse poi che “tagliare le radici significa perdere il significato, significa indebolire il fondamento dell’identità nazionale e disseccare ancor più i rapporti sociali che hanno tanto bisogno di simboli della memoria”. Promuovere una laicità positiva, aveva osservato Barbarin, significa che essa, positiva, non lo è. Il problema “è che la Francia è ancora strattonata fra due vecchie correnti, rispettare la religione o combatterla”. Pochi giorni fa, il cardinale arcivescovo di Bordeaux, Jean Pierre Ricard, ha pubblicato sul sito della diocesi da lui retta un commento in cui nota che ormai “la laicità per molti è divenuta il quarto pilastro della vita repubblicana, accanto alla libertà, l’uguaglianza e la fraternità”. Il punto è, s’è domandato, “di quale laicità stiamo parlando?”. C’è poca retorica nell’interrogativo, se è vero che il sociologo Jean Baubérot, smentendo l’esistenza di un modello di laicità à la francese – “non esiste né è mai esistito” – spiega che semmai è più corretto parlare di “sette tipi di laicità”: il laicismo antireligioso e il secolarismo gallicano, la laicità separatista, quella inclusiva, la laicità aperta, identitaria e concordataria. Insomma, la matassa è difficile da sbrogliare.
Oggi, ha scritto Ricard, è mutato il significato originario di laicità, che pure è quello compreso dalla famigerata legge del 1905: “Riattivando un vecchio laicismo di lotta manifestatosi durante la Terza repubblica contro la chiesa cattolica, un certo numero di partigiani di questa laicità militante chiede l’esclusione delle religioni e delle espressioni religiose dai luoghi pubblici”. Non potendo “farle sparire, vogliono limitar- le nello spazio chiuso delle convinzioni personali e dei luoghi di culto”. Il fine è chiaro, e la cronaca quotidiana lo dimostra, aggiunge l’arcivescovo di Bordeaux: “Lo spazio pubblico deve essere reso asettico, esente da ogni riferimento religioso. La minima manifestazione religiosa sarà tacciata di proselitismo”.
Pareva, dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, che in un sussulto identitario la Francia fosse pronta quantomeno a riprendere in mano il vecchio tema delle radici cristiane. C’erano le manifestazioni di popolo, i leader che si tenevano per mano, le Marianne impresse su stendardi innalzati a ogni angolo di boulevard. Speranza vana. Tutto è subito rientrato, con i vescovi a protestare – per lo più blandamente– contro le politiche del governo Hollande e i dibattiti scatenati dalla “Soumission” di Michel Houellebecq subito sfociati nell’accusa di razzismo e xenofobia. Con il premier Manuel Valls, colui che sta studiando da mesi la possibilità di lanciare una sorta d’islam francese compatibile con i valori fondanti e fondamentali repubblicani – s’è già beccato per questo lo scherno del cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi – a dire che in piazza, quell’11 gennaio, si manifestava per la difesa della laicità e non per altro.
Intanto le chiese chiudono (perché mantenerle costa e sono sempre più vuote) e le moschee crescono di numero. Forse raddoppieranno pure, come ha chiesto un mese fa il presidente del Consiglio francese del culto musulmano, Dalil Boubakeur, intervenendo al trentaduesimo incontro annuale dei musulmani di Francia. “Le attuali moschee non sono sufficienti”, ha detto: “Ci sono molte sale di preghiera incompiute, molte moschee che non sono state costruite. Ne abbiamo oggi duemiladuecento. Occorre raddoppiarle, da qui a due anni”. Amar Lasfar, presidente dell’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia, era andato anche oltre: “Noi rispettiamo il nostro paese che è la Francia. Noi amiamo Dio, noi amiamo il nostro profeta, ma amiamo anche la Repubblica francese. E’ necessario che il numero delle moschee rifletta il numero di musulmani”, che ammonta- no a sette milioni. “Noi abbiamo il diritto di costruire moschee, e i sindaci non devono opporsi”. Lamentava, Lasfar, l’ostilità delle autorità comunali locali verso i musulmani. Eppure, leggendo quanto scriveva Jean-Christophe Moreau, autore di “Islamophobie, la contre-enquête”, non sembra che le cose stiano così, anzi. “Quando si tratta di islam, ogni scrupolo per la neutralità la- scia il posto a un chiaro attivismo dei comuni”, sottolineava, con tanto di esempi messi nero su bianco: dai terreni venduti a sette euro e mezzo al metro quadro per costruirci sopra una moschea alle sovvenzioni culturali da due milioni di euro. Fino ad arrivare al caso limite di Evreux, dove è stato fornito alla locale Unione del culto musulmano un terreno di cinquemila metri quadrati alla cifra di un euro.
Charles Adhémar ricorda che “gli osservatori avevano previsto che l’islam si sarebbe sottomesso prima o poi alle leggi della repubblica francese, come già il cristianesimo aveva fatto”. Tuttavia, aggiunge, “è passato abbastanza tempo per dire che questa visione non è cor- retta e per dimostrare che l’islam non si sottomette, da nessuna parte, a qualche autorità secolare”. Tesi rafforzata anche dall’ultimo libro della demografa Michéle Tribalat, “Assimilation: la fin du modèle français”, in cui si legge che “se qualche accomodamento è possibile con i cristiani e gli ebrei, non lo è con quanti non hanno alcuna appartenenza religiosa”. Ecco perché “la stessa dottrina islamica rafforza l’ostilità che i musulmani possono nutrire verso la società francese, da loro vista come secolare e atea”. Due elementi, nota Tribalat, hanno favorito il rafforzamento della diffidenza della comunità islamica – sempre più arroccata a difesa della propria identità – verso la République: le nozze tra persone dello stesso sesso e la diffusione nelle scuole della teoria gender. Joseph Fadelle, l’iracheno sciita fatto torturare dal padre per essersi convertito al cristianesimo, ha detto lo scorso aprile, durante un convegno in Spagna, che “l’opzione laica colloca l’occidente ancora di più nel mirino dell’islam. Un laico, per l’islam, è peggiore di un credente di qualsiasi religione”.