Contesa fogliante su Israele e la chiesa
Chiesa cattolica, Palestina e Israele. Perché non c'è accordo
Roma. Mercoledì il Vaticano ha riconosciuto lo “Stato di Palestina”. Due giornalisti del Foglio, Giulio Meotti e il vicedirettore Maurizio Crippa, si dividono sul significato di questo gesto storico.
Meotti: Il riconoscimento dello “Stato di Palestina”, che non cade dal cielo ma è il risultato di un processo storico, nasconde molte ragioni culturali, politiche e storiche per spiegare l’inimicizia del Vaticano verso Israele.
Per i primi diciassette anni dell’esistenza d’Israele, dal 1948 al 1965, il Vaticano si è rifiutato di riconoscere Israele per ragioni teologiche: gli ebrei hanno ucciso Gesù e per punirli, ha pensato la chiesa, Dio ha condannato gli israeliti a una eterna diaspora. Gerusalemme era diventata la “città del deicidio” e la sua caduta commemorata nella liturgia cristiana. Il sionismo andava deprecato perché rinnovava l’esistenza del popolo ebraico. La chiesa è la “nuova Israele”. La storia ebraica è finita con la comparsa della cristianità, e gli ebrei che hanno continuato a esistere come popolo sono una mera curiosità. Gerusalemme non è più sulla terra, materiale, ma celeste, in cielo.
Il Concilio Vaticano II ha parzialmente revocato questa dottrina nel 1965. Ma il Vaticano è scivolato dall’antisemitismo all’antisionismo. Da allora due tendenze contrastanti si sono sviluppate in Vaticano: dialogo teologico per gli ebrei e riconoscimento politico e diplomatico per il mondo arabo-islamico, compresa questa ultima decisione di parlare di “Stato di Palestina”.
Crippa: Prima del riconoscimento vaticano dello “Stato di Palestina” ci sono quasi due millenni di rapporti cattivi, e controversi, tra ebrei e cristiani. Poiché non è questo il luogo di approfondire, basterà dare per ammesse le colpe dei cristiani, se non altro perché per un millennio abbondante si sono trovati in posizione di forza sulla scena di questo mondo. Poi c’è stata la grande richiesta di perdono di Giovanni Paolo II, ma non è detto che, agli occhi del popolo di Israele, non si sarà mai chiesto perdono abbastanza.
E’ esistita anche, fino a qualche decennio fa, una “teologia della sostituzione” in base alla quale “la storia ebraica è finita con la comparsa della cristianità”. Ma quella teologia, e i suoi presupposti, non è mai stata quella ufficiale della chiesa cattolica ed è stata condannata da tempo. Detto questo, impostare il problema del (non) riconoscimento dello Stato di Israele da parte del Vaticano da un punto di vista teologico – o addirittura metastorico – come fa Giulio Meotti, è sbagliato. Perché mescola in modo arbitrario e un po’ semplificatorio il piano storico e quello teologico. Piani che, intrecciati quanto si vuole, vanno tenuti distinti. E perché la stessa prospettiva storica ne viene falsata.
Il problema della definizione di uno status della Palestina (intesa denominazione geografica) e poi della nascita dello Stato ebraico nasce molto prima, ed è squisitamente un problema politico e diplomatico. Già ai tempi della stesura del testo del mandato britannico sulla Palestina, 1921, Benedetto XV auspicò che, in un assetto stabile alla Terra Santa, fossero stati garantiti i diritti inalienabili della chiesa cattolica.
Per questo che la Santa Sede accolse con favore la risoluzione 181 del 1947, che prevedeva la spartizione della Palestina e l’internazionalizzazione di un ampia area attorno a Gerusalemme. Al problema Pio XII dedicò ben due encicliche, la seconda fu nel 1949, a pochi giorni dalla discussione per l’ammissione di Israele in seno all’Onu. Si disse preoccupato per i danni subiti dai Luoghi Santi e alle istituzioni educative e di beneficenza sorte attorno ad essi, che temeva costituissero l’anticipazione di un disegno volto a “eliminare ogni influenza cristiana” dalla Terra Santa. E chiedeva “una conveniente situazione giuridica”, la cui stabilità poteva essere garantita soltanto da una comune intesa tra le “nazioni amanti della pace e rispettose dei diritti altrui”.
Il segretario per gli affari ordinari mons. Giovanni Battista Montini disse che si sarebbe dovuto applicare “uno statuto che, in certo modo, si modelli su quello adottato in Roma per lo Stato della Città del Vaticano e le zone ed edifici pontifici che, pur non facendo parte dello Stato, godono di certe più o meno larghe immunità”.
La questione è sempre stata storica, non teologica. E’ anche da notare che già Pio XII faceva riferimento alla questione dei profughi palestinesi, un quinto dei quali erano di religione cristiana. L’Olp era di là da venire.
Fu poi Paolo VI ad abbandonare la perdente, o insostenibile, o vista con gli occhi di oggi malposta questione dell’internazionalizzazione. Ma lì è rimasto per buona parte bloccato il “dialogo”, fino ai tempi di Wojityla, ben oltre il Concilio, che in questo non c’entra.
Meotti: Per oltre cento anni, e per mezzo secolo dopo l’Olocausto, la chiesa cattolica è stata ostile alla creazione di uno Stato ebraico. Lo fu fin dai tempi di Theodor Herzl ricevuto da Pio X, proseguendo con Pio XII che fece pressioni su Roosevelt contro la creazione di uno stato ebraico, e Paolo VI che in visita nella regione non riuscì mai a dire la parola “Israele”. Per la Santa Sede, uno Stato ebraico indipendente che porta il nome di “Israele”, con Gerusalemme capitale e che rinnova la vita del popolo ebraico nella terra della Bibbia, è uno scandalo. David Ben Gurion diceva che “per il Vaticano il potere di Israele è una minaccia teologica”. Basta pensare al sinodo dell’ottobre 2010, quando ancora alcuni vescovi a Roma hanno proclamato che non c’erano “terra promessa” né “popolo eletto”.
Così si spiega il fatto che nonostante l’accettazione da parte di tutte le nazioni occidentali e anche, all’inizio, del blocco comunista, a Israele il Vaticano non ha accordato il riconoscimento diplomatico prima del 1993. Cinquant’anni dopo la sua nascita alle Nazioni Unite. Non è un segreto che oggi le mappe turistiche per i pellegrini cattolici e gli opuscoli di viaggio del Vaticano omettano il nome “Israele”, usando invece l’espressione asettica e neutra di “Terra Santa” o, peggio, di “Palestina”. Per esorcizzare Israele, la chiesa si rifiuta di chiamarlo expressis verbis.
Crippa: Che Ben Gurion dicesse che per il Vaticano il potere di Israele fosse “una minaccia teologica” non implica che ciò sia storicamente né teologicamente vero. Vero può essere che per Benedetto XV, anni Venti, la condizione dei cristiani era già peggiorata con le autorità britanniche, le quali miravano “a scacciare la cristianità” dalle posizioni finora occupate “per sostituirvi gli ebrei”. E riteneva che i “diritti dell’elemento ebraico” non avrebbero dovuto essere “menomati”, ma non si sarebbero nemmeno dovuti sovrapporre “ai giusti diritti dei cristiani”. Se di sostituzione si deve parlare, era questione storico-politica ma non “teologica”. Va detto che il riconoscimento del 1993, l’Accordo fondamentale, è un riconoscimento bilaterale. Sono due gli stati che per mezzo secolo non hanno trovato un accordo diplomatico. E le ragioni pertengono a quanto detto prima. E il tema dello status dei cristiani nella Palestina storica divenuta Stato di Israele è sempre e solo stato impostato dalla chiesa nei termini della libertà di esistenza, permanenza e religione. Su questo la controversia è stata a lungo “bilaterale”. (Ciò non toglie che i tempi sono molto cambiati, ed è cambiato il ruolo dell’islam. Oggi forse la chiesa avrebbe altri punti di vista).
Meotti: Israele non era citato nemmeno nella famosa dichiarazione Nostra Aetate del 1965, nelle Linee Guida del 1974 o in qualsiasi dichiarazione papale prima del 1980. Il Vaticano aveva legami normali con i regimi più odiosi su questa terra. E ha mantenuto relazioni diplomatiche con la Germania nazista fino alla fine della guerra. A quanto pare, il Vaticano ha considerato solo Israele immeritevole del suo riconoscimento.
E anche quando nel 1986 Papa Giovanni Paolo II si recò in visita alla sinagoga di Roma, la prima volta in duemila anni che un Papa ha messo piede in un tempio ebraico, fu sì un gesto di amicizia. Ma il Papa in sinagoga trattò gli ebrei come una semplice comunità religiosa, quando in realtà essi sono un popolo e una nazione. Considerare gli ebrei – come fa il Vaticano – una semplice comunità religiosa, significa negare loro l’appartenenza a un popolo. Significa negare loro un posto tra le nazioni. Per questo neppure Wojtyla, che pure sentiva la tragedia ebraica nel Novecento, citò mai “Israele”. Ci vorranno ancora molti anni.
Crippa: La Nostra Aetate, che molti, compreso Ratzinger, giudicano il documento più importante del Vaticano II, è un documento di natura teologica, non politica. Può essere persino controverso che esso abbia appianato per sempre tutti i problemi di questa natura tra ebrei e cristiani, Ratzinger crede di sì. Wojtyla stette molto attento in quella visita “storica” a sottolinearne l’aspetto religioso. Popolo e nazione implicano nozioni diverse. E il problema “diplomatico” con Israele non poteva entrare in quell’evento. Come pure il problema del sionismo. Quella visita fece giustizia delle teologie variamente sostituzioniste, cioè al fondo liquidatore dell’ebraismo. Vederci dell’antisionismo è azzardato.
Meotti: Lo Stato ebraico è stato abbandonato dal Vaticano nei suoi momenti più tragici dopo l’Olocausto, la Guerra dei sei giorni, la guerra dello Yom Kippur, la Guerra del Golfo, due Intifade dei terroristi, la guerra in Libano nel 2006 e la guerra contro Hamas nel 2009, quando quello stato ha rischiato di essere spinto a mare.
Dopo il Vaticano II, gli arabi cattolici hanno ridato vita all’accusa di deicidio. E’ stato dopo la Nostra Aetate che i temi cristologici del palestinismo si sono sviluppati sulla base delle schemi giudeofobici della crocifissione. Le chiese arabe, sostenute dal Vaticano, hanno trasfigurato il terrorismo in una cristologia e presentato i palestinesi come un Gesù sulla croce. I rappresentanti del Vaticano ritraggono gli sforzi di Israele per impedire vittime civili come “punizione collettiva” senza citare i crimini di guerra di Hamas, come se quel conflitto fosse un “ciclo di violenza”. Israele è associata al “militarismo”, al “colonialismo” e all’“ingiustizia”. Basta pensare anche all’assedio della Basilica della Natività a Betlemme nel 2002 e all’accusa rivolta dal Vaticano non ai terroristi che l’avevano presa in ostaggio, ma ai soldati israeliani.
All’interno della chiesa ci sono molti leader che non amano Israele perché credono che gli ebrei non abbiano diritto alla Terra Santa. Essi, infatti, ritengono che uno Stato ebraico sia teologicamente “illegittimo” e intrinsecamente “razzista”. Il mantra filo-palestinese, personificato da organizzazioni cattolico-umanitarie e da numerosi esponenti della diplomazia del Vaticano, è che gli arabi siano le vittime innocenti dell’“occupazione” israeliana. Il corollario è che sono a priori discolpati da qualsiasi responsabilità per la loro situazione, specialmente per il terrorismo contro i civili.
Crippa: La posizione equidistante della chiesa tra arabi e Israele (o andreottianamente “equivicina”, se qualcuno preferisce) è sempre stata basata su due pilastri: la maggior tutela di tutte le posizioni-religioni nell’ottica della “pace” (questione anche tattica: i cristiani hanno sempre temuto di essere il vaso di coccio tra i due contendenti) e la tutela delle componenti cristiane mediorientali, che sono arabe in maggioranza. Che questa visione sia superata oggi dai fatti, è probabile ma non è una verità assoluta. Che nella componente arabo-cristiana esistano tuttora posizioni “giudeofobiche” e concezioni teologiche che la Nostra Aetate non ha estirpato, è un dato. Che molta parte del problema nasca dalla situazione storica di questi decenni, è un altro dato non proprio censurabile. Che il riconoscimento dello “Stato di Palestina” nasca da un cedimento, o peggio, per quelle posizioni – e non da una declinazione di quei due “pilastri” – credo ci siano montagne di documenti e dichiarazioni della Santa Sede e della sua diplomazia che lo smentiscano.
Meotti: Sui luoghi santi penso che il Vaticano sia un po’ ipocrita. Quando il Vaticano chiede la “internazionalizzazione” e la “extraterritorialità” di Gerusalemme, non è interessato all’accesso ai Luoghi Santi, di cui la chiesa gode già secondo la legge israeliana. Inoltre, quando questi Luoghi Santi erano sotto la giurisdizione dei giordani dal 1948 al 1967, e gli ebrei non potevano pregare al Muro del Pianto, allora nessun Papa chiese “l’internazionalizzazione di Gerusalemme”. No, è qualcos’altro che vuole il Vaticano. Quello che vuole è la fine del controllo ebraico di Gerusalemme. Il Vaticano non sopporta che la città sia unita sotto controllo israeliano.
Il modo in cui il Vaticano si relazionerà con lo stato di Israele influenzerà il futuro delle relazioni tra cristiani ed ebrei, visto che il primo ne è la più alta autorità spirituale e il secondo ne accoglie i resti dopo la Shoah. Israele è ancora nella fase di stabilire le condizioni per la sua esistenza e questa lotta per la sopravvivenza fornisce al Vaticano la possibilità, concreta e storica, di riscattare gli errori del passato. Riconoscere in quel modo lo “Stato di Palestina” non aiuta.
Crippa: Sulla questione dei Luoghi Santi va notato che quell’insistenza fu tenuta dal Vaticano proprio in quegli anni, dal 1948 al 1967, e venne di fatto abbandonata dopo la Guerra dei sei giorni, con le mutate condizioni politiche. E più esattamente dopo la Conferenza islamica di Rabat, secondo la quale la preservazione del carattere sacro dei Luoghi Santi esigeva che la città recuperasse il suo “statuto anteriore al 1967”. La Santa Sede capì che la doppia intransigenza su Gerusalemme, di ebrei e musulmani, avrebbe ridotto la questione a uno scontro politico-religioso, emarginando gli interessi cristiani. Da allora la chiesa si è limitata a rivendicare “pari dignità” per i cristiani. La “fine del controllo ebraico”, in questi termini, non è mai stata in agenda per il Vaticano. Di certo non lo è più da decenni.
Editoriali
Mancavano giusto le lodi papali all'Iran
l'anticipazione