Un Santo da ammazzare
“Quando la politica tocca l’altare, la Chiesa difende il suo altare” (Pio XI)
Ci sono voluti trentacinque anni per riconoscere che Oscar Arnulfo Romero fu martirizzato in odium fidei e quindi degno d’essere proclamato beato, cosa che avverrà oggi a San Salvador. Era il 24 marzo 1980, ultimo lunedì di Quaresima. Romero stava celebrando una messa pomeridiana in suffragio di una sua conoscente. L’omelia l’aveva tenuta in piedi, come spesso faceva, dinanzi all’altare. Girandosi per prendere il corporale con cui iniziare l’offertorio, una pallottola di quelle a frammentazione – una soltanto – lo colpì a morte. Ucciso con i paramenti sacri ancora indosso, in spregio alla fede. “Non dubito che la sua persona meriti la beatificazione”, disse Benedetto XVI ai giornalisti che gli domandavano lo stato della pratica, nel maggio del 2007. “Una morte veramente credibile, di testimonianza della fede”, aggiunse a braccio Joseph Ratzinger. Il problema, disse ancora il Papa oggi emerito, è che “una parte politica voleva prenderlo per sé come bandiera, come figura emblematica, ingiustamente”. Questo è il punto chiave per capire la vicenda. Lo storico Roberto Morozzo della Rocca, dopo aver consultato decine di documenti fino a oggi inediti, ha scritto in “Oscar Romero, la biografia” (San Paolo, 2015) – libro mirabile perché privo di quella melassa nostalgica e obbligatoriamente agiografica che spesso pervade le operette su chi è in odore di iscrizione nel catalogo dei santi – che “la glorificazione di un Romero ‘martire del popolo’, nei termini della guerriglia, a lungo ne ha imprigionato la figura nella temperie della guerra civile salvadoregna e dello scontro tra destra e sinistra”. Il mito, insomma, “ha rinchiuso Romero nella gabbia degli scontri ideologici della sua epoca”. Ancor prima di celebrarne i funerali (interrotti dalle bombe che falciarono la folla assiepata all’esterno della cattedrale e mai più ripresi), lui era già un mito politico, “accostato messianicamente a personaggi come Camilo Torres, Che Guevara o Salvador Allende”.
Lapalissiano, dunque, che nella curia romana qualcuno non vedesse di buon occhio la beatificazione di questo vescovo che tanti, in patria, soprannominavano “Marxnulfo”. Accusato da destra di essere un marxista leninista comunista e da sinistra di essere un conservatore reazionario. Gli imputavano, i seguaci della Teologia della liberazione deviata – quella sempre duramente avversata da Romero – perfino di girare in abito talare, segno incontrovertibile di tradizionalismo stantìo. Per lui, la bussola è sempre stata la Roma dei papi, e la romanità ha costituito un elemento decisivo nella sua formazione e nella sua identità di sacerdote e vescovo. Visse sei anni a Roma, tra il 1937 e il 1943, rendendosi conto di quanto disastrata fosse la realtà della chiesa latinoamericana, lenta nel rigenerarsi dopo l’addio alla Spagna conquistadora. Non c’erano preti, i fedeli avevano idee poche e confuse, mescolavano spesso culti locali a spunti tratti dal catechismo imparato chissà dove e in chissà quale modo. A Roma matura la sua devozione per i Pontefici, tutti. Il suo attaccamento a Paolo VI è noto – Montini gli farà da scudo quando prelati e monsignori curiali ne auspicavano la rimozione dalla guida della diocesi – ma la sua stella polare fu, fin dall’inizio, Pio XI, l’unico Papa imperial, il modello perfetto di vescovo forte. Perché è questo che Romero voleva, e non a caso il suo modello di pastore era quello tridentino impersonato da Carlo Borromeo. Sul periodo romano ha lasciato riflessioni che testimoniano quanto indiscutibile fosse la polarità della Città eterna – “madre, maestra, patria” – nel suo orizzonte di vescovo cattolico: “Roma è il simbolo e la sintesi più bella della chiesa”. E ancora, “per un seminarista che si prepara devotamente alle esigenze della sua vocazione, che bella scuola osservare e vivere una Roma che si dispiega sotto la mano visibile di Dio che è il Papa”.
Non fu facile la sua vita da vescovo. A San Salvador, in quattro anni come ausiliare, gli insuccessi furono superiori ai successi. Isolato, uomo dal carattere difficile, con pochi amici, pareva la copia del Paolo VI strattonato nei marosi del post Concilio. Non a caso, il Montini che Romero riprendeva nei suoi articoli era quello del “fumo di Satana” forse entrato nella chiesa; il Papa che denunziava l’autodemolizione della chiesa e biasimava quanti auspicavano e lavoravano all’edificazione d’una chiesa senza santità, autorità, croce, obbedienza e sacrificio. Il “suo” Vaticano II era quello dell’aggiornamento che mantenesse intatto il dogma e la tradizione nel suo più profondo significato. Il Concilio portato avanti e chiuso da Montini, Papa dell’equilibrio. Frequenti le critiche agli innovatori, accusati di “ignorare il patrimonio storico e teologico di secoli di vita cristiana”. Ma la tradizione, per lui, non andava confusa con le tradizioni, come ebbe a dire il cardinale Suenens.Sono gli anni della Teologia della liberazione rampante, Romero è diffidente. Per lui, scrive Morozzo della Rocca, era accettabile solo la teologia della liberazione che “giungeva fino alle realtà celesti e non si esauriva nelle realtà terrene”. Liberación doveva significare nient’altro che salvación.
E’ la “salvezza integrale” di cui parlava Paolo VI, l’eterna teologia della salvezza di Cristo venuto a redimere dal peccato. Per lui, i poveri – elemento centrale in tutta la sua esperienza di uomo della chiesa – non dovevano essere infilati in categorie ideologiche; non erano “un elemento della storia politica”. I poveri avevano un posto d’onore nel cristianesimo, perché così sta scritto nel Vangelo. Romero “non aveva bisogno di riferirsi a dottrine teologiche specifiche. Si richiamava a Paolo VI, al Vaticano II, a Medellín, a Puebla”. Si interessò alle tesi di padre Gutiérrez perché gran parte del suo clero le sponsorizzava, ma la lettura della teologia della liberazione che sposava era quella offerta da Eduardo Pironio, dove la lotta politica non trovava alcuno spazio. Dirà Romero nel 1978, quando ormai era già da un anno arcivescovo della capitale, che lui appoggiava sì la teologia della liberazione, spiegando però che “vi erano due tipi di tale teologia, quella che si appoggia solamente a cose terrene e desidera una soluzione immediata, e l’altra che promana dal messaggio di Gesù che viene a togliere il peccato dal mondo”. E la sua preferenza andava a questa seconda lettura, meramente evangelica. La bussola, diceva, era la Evangelii Nuntiandi. Una bussola che stentava a essere recepita dagli altri vescovi salvadoregni, che salvo sparute eccezioni, fecero il possibile per far destituire Romero. Benjiamin Barrera, vescovo di Santa Ana, arrivò a suggerire al presidente della Repubblica di far espatriare Romero: “Io per ultimo dissi il mio pensiero. L’unica via sicura che Ella può seguire è, con tutto il rispetto, quella di mettere Monsignore su un aeroplano e mandarlo all’estero, tenendo conto del fatto che la stampa inizialmente farà i suoi commenti ma, alla fine, il caso sarà dimenticato”.
Aveva una certa difficoltà, Romero, nel capire subito le persone. Un’ingenuità di cui si sarebbe pentito quando apprese che l’uomo da lui scelto e quasi preteso come proprio ausiliare a San Salvador, René Revelo, spediva regolarmente a Roma dossier in cui denigrava il suo superiore. A Romero ci volle un po’ prima di rendersi conto dell’opinione (perplessa, se non negativa) che in Vaticano si andava formando sul suo conto. In un primo momento non comprendeva quali fossero le accuse a lui dirette, ostinato com’era e convinto che la sua linea fosse indiscutibilmente giusta. E quando il nunzio gli raccomandava la salvaguardia dell’unità episcopale – una mera chimera, visto lo stato penoso dei rapporti in seno alla conferenza dei vescovi locali fin dagli anni Sessanta – lui rispondeva che “la linea di coerenza evangelica” non poteva essere sacrificata “solo per onorare una unità apparente”. Gli altri, che mal tolleravano la sua popolarità tra le masse contadine rafforzata negli anni di episcopato a Santiago de Maria – all’alba saliva su una jeep attrezzata con altoparlanti e come un chierico vagante portava la buona novella ai campesinos, negli anni in cui nel Salvador dello scontro tra Stato e chiesa il solo possedere una Bibbia poteva costare la vita – lo accusavano di essere un vanitoso e, soprattutto, un comunista. Ma Romero il comunismo lo avversava, poiché “pretende di generare una nuova specie di uomini”. Scriveva che “il segno specifico dell’uomo è la religiosità” e “senza la religione l’uomo non più di un animale. Ebbene, il comunismo questo vuole: sradicare dall’uomo ogni sentimento religioso”. A Roma la situazione per lui iniziava a farsi pesante, anche per errori che Romero commise a causa del suo non essere uomo di mediazione. Il cardinale Baggio, prefetto della congregazione per i vescovi, lo convocò in curia per un “definitivo chiarimento”. Aveva letto tutto quel che si diceva sull’arcivescovo di San Salvador: dalle informazioni dei presuli locali ai rapporti del nunzio Gerada, l’uomo che cercò di impedire la celebrazione della messa unica nella cattedrale della capitale dopo l’assassinio del gesuita Rutilio Grande, uno dei pochi grandi amici di Romero. In quegli anni, sui manifesti delle città salvadoregne campeggiavano slogan quali “haga Patria, mate a un cura”, sii patriota, uccidi un prete. Gerada sconsigliò all’arcivescovo di chiudere le chiese alla messa domenicale per far convogliare tutto il clero nella capitale in memoria di padre Grande. Con il governo e i militari, suggeriva il diplomatico, era preferibile usare “maneras suaves”. Ma le maneras suaves non gli si addicevano: non era uomo di compromesso, tutt’altro. Era impulsivo, a tratti perfino autoritario. Una testardaggine che gli avrebbe fatto commettere anche qualche errore, come avrebbe dimostrato la lettera spedita a Giovanni Paolo II appena asceso al Soglio petrino: un lungo elenco di lamentale sulla condotta del nunzio, di alcuni presuli e perfino del cardinale Baggio. “La lettera poteva avere per Romero solo effetti sfavorevoli. Il Papa, appena eletto, senza pratica delle questioni salvadoregne, non poteva valutarla nel merito”, scrive Morozzo della Rocca. Ansioso com’era, Romero “concepì la lettera come un documento di contraddittorio giudiziario perché l’autorità superiore, il Papa, lo assolvesse dalle accuse che gli venivano mosse”.
Lui, del Papa, era certo di avere l’appoggio. Ricordava quanto gli aveva detto Montini l’ultima volta che si erano visti: “Coraggio, è lei che comanda!”. Paolo VI rappresentò l’argine al profluvio di istanze per l’allontanamento di Romero. La morte del Pontefice lo lasciò disorientato. Dopo la breve parentesi di Albino Luciani, non sapeva cosa attendersi dal vigoroso vescovo di Roma giunto da Cracovia. Il loro primo incontro (nel 1979) lasciò Romero pensieroso: Giovanni Paolo II aveva insistito sulla necessità di pensare all’unità dell’episcopato, ma non gli aveva chiesto di usare quei toni morbidi con le autorità politiche che il nunzio Gerada, due anni prima, aveva raccomandato. In ogni caso, Karol Wojtyla non diede seguito alle richieste di sostituire l’arcivescovo: voleva vederci chiaro, ascoltare tutti i protagonisti in campo. Un anno dopo, nel corso di un secondo incontro riservato, il Papa disse di sapere quanto fosse difficile “la situazione lì da voi. Bisogna difendere molto, con impegno, la giustizia sociale e l’amore verso i poveri, ma bisogna stare anche molto attenti alle ideologie che si possono infiltrare in questa difesa dei diritti umani, che a lungo andare sono altrettante offese ai diritti umani”. Romero si disse d’accordo: “Essere pienamente con i poveri, ma anche segnalare i pericoli che ci possono essere in una rivendicazione realizzata senza i sentimenti cristiani”.
[**Video_box_2**]Si è molto scritto, negli anni, su una presunta conversione di Oscar Romero: da legato alla tradizione, si sarebbe trasformato in un seguace di quel filone della Teologia della Liberazione che anni dopo sarebbe incappato nella censura dell’ex Sant’Uffizio. Un cambiamento che sarebbe avvenuto mentre vegliava il cadavere di Rutilio Grande. Il teologo Jon Sobrino in “Romero, martire di Cristo e degli oppressi” (Emi, 2015) si dice convinto che “non soltanto che Romero abbia attraversato una conversione, ma abbia anche fatto una nuova esperienza di Dio. Da allora non poté più separare Dio dai poveri, la sua fede in Dio dalla difesa dei poveri”. Ma quel che era cambiato, semmai, era il suo modo di rapportarsi alle mutate responsabilità in un contesto sociale drammatico, con sacerdoti che sparivano nel nulla o che venivano ammazzati e sfigurati insieme a decine di contadini accusati di fomentare rivolte contro l’ordine costituito. Era cambiato ciò che lo attorniava. Il pastore si fece defensor civitatis, faro nella nebbia. Protettore del clero perseguitato e difensore dei poveri. Spiega bene il clima quanto scrisse lo stesso Romero in una delle riflessioni riportate dal suo ex segretario, Jesùs Delgado, in “La chiesa non può stare zitta” (Emi, 2015): “Le persecuzioni della chiesa primitiva, quelle delle missioni, fino a un certo punto parevano passate e storiche, ma qui abbiamo dovuto vivere quella storia in tutta la sua crudezza”. Ai giornalisti che a Puebla lo seguivano come una star hollywoodiana, disse che potevano pure parlare di conversione, ma che “sarebbe più esatto definirla uno sviluppo del processo di conoscenza”. Sempre, aggiungeva, “ho avuto affetto per il popolo, per il povero (…). Giungendo però a San Salvador, la stessa fedeltà cui avevo voluto ispirare il mio sacerdozio mi fece comprendere che il mio affetto verso i poveri, la mia fedeltà ai princìpi cristiani e l’adesione alla Santa Sede dovevano prendere una direzione un po’ diversa”. E’ la fortaleza pastorale “che contrastava col mio temperamento e le mie inclinazioni conservatrici. “Ho creduto un dovere – scrisse – pormi decisamente in difesa della mia chiesa e, dalla chiesa, a fianco del mio popolo tanto oppresso”.
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