Io divorziato contro Kasper
Il Foglio anticipa alcuni estratti da “Il Vangelo della fedeltà coniugale. Risposta al Card. Kasper. Una testimonianza” (Solfanelli, 128 pp., 10 euro), il libro scritto da Rainer Beckmann con la presentazione del cardinale Paul Josef Cordes, presidente emerito del Pontificio consiglio Cor Unum. Il volume è in uscita nelle librerie in questi giorni.
Il cardinale Kasper sembra perfettamente consapevole che la sua proposta è discutibile. Nel suo libro “Il Vangelo della famiglia” (Editrice Queriniana, Brescia 2014) sottolinea con notevole frequenza che non intende in alcun modo difendere la “misericordia a buon mercato” o la “clemenza a buon mercato”. Egli lotta contro l’impressione, purtuttavia evidente, che qui si venda qualcosa “a buon mercato”, cioè lo si “svenda”. Dopo tutto quello che abbiamo potuto fin qui chiarire nella nostra argomentazione, bisogna purtroppo dire che tale impressione è giustificata. Una “misericordia” che non richiede conversione non merita il nome di misericordia. Essa induce i peccatori a proseguire nella loro vita di peccato e pertanto solo apparentemente rappresenta un aiuto per loro: in verità, gli interessati vengono ingannati e rafforzati nel loro comportamento sbagliato.
Nel suo libro sulla misericordia, il card. Kasper ha giustamente scorto il pericolo che anche in seno alla Chiesa la parola “misericordia” possa essere fraintesa e usata male. A un certo punto, riferendosi a un teologo evangelico assassinato dai nazisti sotto il Terzo Reich, egli scrive: “Dietrich Bonhoeffer ha espresso chiaramente senza tanti giri di parole quel che qui intendiamo dire: ‘E’ grazia a buon mercato, perché è giustificazione del peccato, ma non del peccatore penitente’. ‘Grazia a buon mercato è predicazione della remissione senza penitenza… è Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale’”. (Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo. Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013).
Il card. Kasper aggiunge poi che “soprattutto quando si tratta di partecipare all’eucaristia” sono necessari l’esame di coscienza e il discernimento: “Pure i cattolici devono esaminarsi seriamente e domandarsi se la loro vita si concilia con l’Eucaristia quale celebrazione della morte e risurrezione di Cristo”. Non è forse vero che questo monito si applica esattamente ai divorziati risposati, che nella loro vita trasgrediscono le affermazioni inequivocabili di Gesù sull’adulterio? E la soluzione proposta dal card. Kasper non contraddice forse in modo sorprendentemente esplicito il passo di Dietrich Bonhoeffer, che pure ha scelto di citare per contrastare chi fraintende la misericordia?
Tanto per non essere frainteso anch’io: la grazia non si può e non si deve guadagnare, è “gratuita”. Al tempo stesso, però, dovrebbe essere “cara”, cioè preziosa, per noi. La misericordia di Dio alla fine dona la vita eterna. Per questo dobbiamo essere pronti, tanto per citare le parabole di Gesù, a rinunciare a tutto per “il tesoro nel campo” (Mt 13:44) oppure per la “perla di grande valore” (Mt 13:45), e se occorre anche cavarci un occhio se esso ci è occasione di scandalo (Mt 5:29; 18:9). Non sarebbe un grande esempio di disposizione alla conversione e di grazia se una divorziata risposata che abbia “perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità” (Familiaris consortio, n. 84) ponesse fine alla sua seconda unione e tentasse un nuovo inizio con il suo coniuge sacramentale? Questo sarebbe un comportamento che non mira a una clemenza “a buon mercato”, bensì si affida alla grazia inestimabile di Dio. Ma quale grazia riceveranno coloro che rifiutano di convertirsi e tuttavia pretendono di ricevere i sacramenti?
Sul terreno della misericordia, la Chiesa non è seconda a nessuno. Tutti hanno bisogno di misericordia e tutti possono riceverla alle stesse condizioni: il ladro, il mentitore, l’assassino, il superbo, l’avaro, il duro di cuore, l’infedele e naturalmente anche il divorziato che ha contratto una seconda unione con rito civile. E’ per questo che esiste il “sacramento della misericordia”. La Chiesa è “come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà”. (Evangelii gaudium, n. 46)
E’ vero: la porta è sempre aperta ed è facile ritornare nella casa paterna. Occorre soltanto un passo: la conversione.
Per quanto riguarda l’autorizzazione ad accostarsi al sacramento della penitenza (…), il discorso del card. Kasper dinanzi al Concistoro non presenta argomentazioni, bensì un vuoto. Non vi si trova infatti neanche una parola che spieghi perché i divorziati risposati che non vogliono rinunciare alla loro nuova unione dovrebbero poter ricevere il sacramento della penitenza senza ottemperare ai requisiti che valgono per tutti gli altri. Ciò nonostante, il discorso funziona in senso “argomentativo”, perché contiene alcuni “argomenti sussidiari” che dovrebbero militare a favore della “soluzione” proposta dal card. Kasper. Il cardinale si riferisce in modo particolare a un “cammino della conversione e della penitenza, così variegato come l’ha conosciuto la Chiesa antica”, alla prassi delle chiese ortodosse e ad affermazioni fatte da Joseph Ratzinger all’epoca in cui era ancora docente di teologia.
Prassi di divorzio nella Chiesa dei primordi?
Nel suo discorso, il Cardinale afferma che la risposta dei Padri della Chiesa alla sfida dell’adulterio e della successiva seconda “unione quasi-matrimoniale” non fu unitaria. “La cosa certa, però, è che nelle singole Chiese locali esisteva il diritto consuetudinario in base al quale i cristiani che, pur essendo ancora in vita il primo partner, vivevano un secondo legame, dopo un tempo di penitenza avevano a disposizione non una seconda nave, non un secondo matrimonio, bensì, attraverso la partecipazione alla comunione, una tavola di salvezza”. Io non sono un teologo e meno ancora uno storico della Chiesa, ma a un’ulteriore lettura delle osservazioni di Kasper mi sono subito sorti dei dubbi circa il fatto che qui vengano trasmesse delle conoscenze “certe”. Appena qualche riga più sotto, vi sono, secondo Kasper, soltanto “fondati motivi di supporre” che questa prassi sia stata confermata dal Concilio di Nicea nell’anno 325. E subito dopo il Cardinale fa ancor più macchina indietro: sui dettagli storici “di simili questioni ci sono controversie tra gli esperti. Nelle sue decisioni, la Chiesa non può fissarsi sull’una o sull’altra posizione”. Qui il lettore inesperto si stropiccia gli occhi dall’incredulità: è questo un modo serio di argomentare? Prima viene presentato un fatto “certo”, poi segue, a poca distanza, l’ammissione che le “conoscenze” prima esposte – evidentemente dubbie ed effettivamente discusse – non si prestano a fungere da base per una decisione specifica. Ma allora sarebbe stato più serio non menzionarle affatto, o quanto meno illustrare in modo particolareggiato anche la posizione contraria.
In aggiunta a ciò, di per sé una prassi della Chiesa cristiana degli esordi come quella che il card. Kasper ritiene possibile potrebbe contribuire poco o punto alla problematica attuale. Resterebbe infatti la questione se questa prassi eventualmente riscontrabile “nelle singole Chiese locali” fosse giusta e corrispondente alla Parola di Gesù (Mt 5:32; 19:6-9; Mc 10:2-12; Lc 16:16-18). Da molti secoli, la Chiesa cattolica non ne è convinta.
La svalorizzazione della penitenza
Adottare la soluzione proposta dal card. Kasper avrebbe conseguenze incalcolabili anche per il sacramento della penitenza. La prevista assoluzione dei divorziati risposati nel sacramento della riconciliazione senza alcun cambiamento fondamentale della loro situazione di vita creerebbe un precedente: perdono dei peccati senza risoluzione di evitare il peccato in futuro. Una “soluzione” siffatta toglie al sacramento della penitenza la sua indispensabile condizione preliminare – cioè il vero pentimento e la vera conversione – e perciò lo conduce ad absurdum.
Eucaristia senza disposizione
Nella pratica, i presupposti per un degno ricevimento della comunione sono scarsamente conosciuti e sovente anche violati. Pertanto fino a un certo punto è comprensibile che i risposati esclusi dalla comunione si sentano trascurati, perché a quasi tutti gli altri è consentito riceverla, che ne abbiano o meno la disposizione (secondo il can. 916). Ma naturalmente le condizioni per il degno ricevimento della Ss. Eucaristia valgono allo stesso modo per tutti i cattolici. Dall’altrui comportamento errato non si può certo far discendere un’autorizzazione a comportarsi nello stesso modo.
Consentire ai risposati di accostarsi alla comunione legittimerebbe dunque una posizione in sé contraddittoria. Con la loro condotta, i battezzati che contraggono una seconda unione di diritto civile nonostante il loro matrimonio sacramentale sia ancora valido testimoniano che non intendono il matrimonio sacramentale come legame per la vita e come immagine del Vero Dio per gli uomini. Pertanto, Papa Giovanni Paolo II ha giustamente ribadito che i divorziati risposati non possono essere ammessi alla mensa eucaristica “dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”. (Familiaris Consortio, n. 84)
Se si consentisse ai divorziati risposati di ricevere la comunione, ciò equivarrebbe ad ammettere all’eucaristia dei fedeli che non ne hanno la disposizione. I divorziati risposati hanno commesso una grave trasgressione che li esclude dall’eucaristia, e cioè una violazione durevole del sacramento del matrimonio. Sarebbe senz’altro necessario contrastare i deficit di devozione eucaristica: ma la proposta del card. Kasper avrebbe l’effetto esattamente opposto.
Promozione del relativismo
Poiché, in fin dei conti, la proposta del card. Kasper è di accordare lo stesso trattamento sia ai divorziati risposati, sia ai coniugi separati ma rimasti fedeli, egli incoraggia anche il relativismo. Chi tratta allo stesso modo cose che uguali non sono è indifferente a distinzioni essenziali. Due comportamenti contraddittori sembrano assumere “uguale” valore. Ma così facendo, la Chiesa si conforma all’onnipresente relativismo della società contemporanea, per il quale tutto sembra dotato dello stesso valore, o per meglio dire, ugualmente privo di valore.
La posta in gioco è alta
Di fronte a queste gravi conseguenze per la struttura sacramentale della Chiesa cattolica, viene da domandarsi perché il Card. Kasper, e tutti colori che appoggiano la sua proposta, perseguano il loro tema con tanta tenacia. A mio modo di vedere, non ci si può accontentare dell’assicurazione che esistano opinioni diverse ma che tutti non vogliono altro che il meglio. La posta in gioco è troppo alta. Come si può volere qualche cosa di evidentemente sbagliato? Mi vengono in mente soltanto due motivi rilevanti per questo: umana debolezza oppure dubbi circa la giustezza della dottrina della Chiesa. Ma probabilmente l’uno e l’altro vanno di pari passo.
In occasione del suo viaggio apostolico del settembre 2011 in Germania, Papa Benedetto XVI ha affrontato apertamente il problema di fondo cui la Chiesa è di fronte nella situazione odierna: “Da decenni assistiamo ad una diminuzione della pratica religiosa, constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa. Emerge la domanda: la Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?”. Papa Benedetto però non ha consigliato alla Chiesa di conformarsi al mondo, bensì di “alleggerirsi dagli elementi mondani” per poter restare fedele alla sua missione. L’esortazione era assai chiaramente tagliata su misura della Chiesa tedesca, eppure riguardava una tentazione che può sorgere sempre e ovunque: “quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo”.
[**Video_box_2**]Stante che la maggioranza dei cattolici tedeschi ha già conformato la propria concezione del matrimonio a quella del mondo, viene da domandarsi se anche diversi vescovi e cardinali intendano seguire questo stesso processo di adeguamento. Può forse dipendere dal desiderio incondizionato di continuare a essere riconosciuti come una “forza sociale influente”, come un “significativo fattore sociale” e come un “partner istituzionale della politica”? E’ vero che la Chiesa ricopre ancora un ruolo importante nella società tedesca. E sarà ancora così, fin quando fluiranno i versamenti per le imposte ecclesiastiche. Con i suoi ospedali, le sue scuole, i suoi asili, i suoi istituti per disabili, le sue case di riposo e di cura, la Chiesa è saldamente radicata nella società. Al tempo stesso, sulla Chiesa influiscono, oltre le strutture Chiesa-Stato esistenti, anche le forze della società secolare. Ciò può condurre a un processo di assimilazione negativo. Proprio nell’ambito del matrimonio e della famiglia, è la Chiesa che informa la società con la sua fede, o non è piuttosto l’inverso? Non vi è forse il pericolo che la Chiesa, che in molti ambiti poggia su concetti finanziari e strutture finanziarie dello Stato, paghi questa sua rilevanza sociale con una “acquiescenza” sul terreno delle sue convinzioni, specie quelle alle quali la società oppone incomprensione e aperta contraddizione?
Esistono potenti forze sociali che non aspettano altro che la Chiesa cattolica finalmente “ceda” e ammetta, magari anche solo indirettamente, di avere sbagliato in un punto centrale della sua dottrina, cioè sull’indissolubilità del matrimonio. Dietro la grande attenzione che i mass media secolari riservano al dibattito in corso in seno alla Chiesa sul trattamento da riservare ai divorziati risposati vi è proprio questa aspettativa. Nella società secolare, il divorzio e il secondo o anche il terzo matrimonio sono socialmente accettati. Risposarsi dopo una separazione è considerato come un passo ragionevole verso un nuovo futuro. Promiscuità e convivenza nelle cosiddette “partnership per un segmento di vita” – con o senza certificato di matrimonio – sono generalmente considerate come “stili di vita moderni”. Se la Chiesa cattolica si allineasse a questa tendenza per fare una concessione alle esigenze che le vengono sottoposte, tradirebbe il suo compito missionario. Ciò che a molti oggi appare soltanto un’“apertura” oppure un “adattamento” marginale della dottrina al mutato contesto sociale consiste in realtà in una rottura della sua tradizione secolare, che poggia direttamente sulla Parola di Cristo.
Chi dunque lede l’indissolubilità del matrimonio si rende complice di coloro che non sono affatto interessati a un “atteggiamento misericordioso” della Chiesa nei confronti dei divorziati risposati, bensì a un’equiparazione del matrimonio sacramentale con il matrimonio civile. Poco importa se ciò avvenga per debolezza nei confronti delle pressioni esterne, oppure per scarsa saldezza nelle proprie convinzioni. Se la Chiesa accettasse la prassi di lasciar accostare ai sacramenti senza operare l’essenziale distinzione fra coniugi fedeli e infedeli, essa compirebbe un passo nella direzione sbagliata. Così facendo, susciterebbe inevitabilmente l’impressione che esista una sorta di “divorzio cattolico”, non come atto formale ma come riconoscimento reale della seconda unione. A quel punto l’“indissolubilità del matrimonio” resterebbe soltanto sulla carta e non avrebbe più nulla a che vedere con la vita concreta delle persone.
Ma a chi serve una Chiesa che non sa più annunciare e sostenere le sue stesse convinzioni in un contesto di critica nei confronti della fede? Noi dovremmo essere “il sale della terra”. Ma se il sale perde il sapore, la gente lo getta via e lo calpesta (cfr. Mt 5:13).