Perché con questa enciclica il Papa prova a indicare un diverso modello di crescita
La crisi economica tutt'ora in atto ha provocato le analisi di esperti di ogni tendenza e numerosi tentativi di arginarla da parte delle grandi istituzioni mondiali. Non deve stupire se ora anche il magistero sociale tenti di rispondere con sistematicità ai quesiti teorici e alle evidenze empiriche sollevate da questo profondo sconvolgimento delle strutture e delle società mondiali.
1. L'enciclica nel magistero sociale
Ponendosi da questo punto di vista in stretta continuità con la Caritas in veritate di Benedetto XVI, l'enciclica Laudato sí di papa Francesco esperisce questo tentativo riprendendone l'analisi antropologica (come ha ben commentato Fabio Angelini sul sito del Sir), e allo stesso tempo denunciando i limiti dell'antropocentrismo. Ovvero, di quella filosofia dell'immanenza in cui compito e destino dell'individuo è il mero accrescimento del potere, su se stesso e sulle cose.
Alla prima questione aveva risposto l'Evangelium vitae di s. Giovanni Paolo II, opponendo alle ombre della cultura della morte la coraggiosa testimonianza della civiltà dell'amore, un programma di santità universale già auspicato da Paolo VI e qui riproposto nella variante della “cultura della cura” (n. 231) che impegni i cristiani a lavorare assieme a tutti gli uomini di buona volontà. Oggi la situazione si è fatta tanto complicata da non pensare di poter risolversi con la conversione individuale (nn. 218-219), né “possiamo pensare che i programmi politici o la forza della legge basteranno ad evitare i comportamenti che colpiscono l’ambiente, perché quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o principi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare” (n. 123).
Per questo motivo il Pontefice attuale ha deciso di offrire concrete indicazioni pastorali (e non certo soluzioni tecniche, che esulano dalla mission della Dottrina sociale), con l'obiettivo di sanare questa relazione ferita tra l'uomo e quell'ambiente che ospita il suo cammino verso il Creatore di entrambi.
La differenza tra “natura” e “creazione” sta appunto nel finalismo che si presuppone in quest'ultima, laddove la natura sembra essere cieca, o tutt'al più un meccanismo analizzabile, comprensibile, gestibile (n. 76). Da qui, la differenza tra le altre creature e l'essere umano, a motivo della sua intima struttura relazionale, a immagine e somiglianza della Trinità (n. 239), che lo rende “in grado di entrare in dialogo con gli altri e con Dio stesso” (n. 81). Solo con tali presupposti possiamo concepire tutto l'universo materiale come linguaggio dell'amore di Dio (n. 84). In questo modo, la realtà della creazione completa e supera l'angusta dialettica fra natura e cultura (intesa come civilizzazione umana dell'ambiente) per introdurci in una dimensione tanto complessa quanto delicata. Il nostro stare nel mondo non dipende dal caso né dalla nostra volontà, ma reca con sé una responsabilità, compendiata in quel mandato vocazionale a “coltivare e custodire” il giardino terrestre attraverso il lavoro (nn. 124-130).
2. Il paradigma tecnocratico
Come si può ben vedere dalla sua realtà originaria (da quel principio raccontato in Genesi), questo potere dell'uomo sulle cose non ha nulla di prometeico, è piuttosto il suo segno di distinzione e di primazia nel servizio al progetto della Creazione, che non è ancora concluso, nella misura in cui chiede la nostra collaborazione per annunciarne la bontà intrinseca “fino agli estremi confini della Terra” (At 1,8). Del resto, “solo partendo da Dio, in definitiva, può l'uomo coerentemente comandare e solo guardando a Lui può obbedire”, scrive Romano Guardini, già maestro di Joseph Ratzinger e qui citato numerosissime volte, a testimonianza di una riconoscenza alla sua opera intellettuale anche da parte di Bergoglio, a nome della Chiesa intera. Dunque, è sulla scorta di questa estrema apertura di Dio alla collaborazione dell'uomo che va misurato quel tradimento nei confronti dell'ambiente, portato alle sue conseguenze parossistiche già dalla metà del secolo scorso e perpetrato in nome della tecnica.
Il senso della grande trasformazione seguita all'industrializzazione di larghe zone del pianeta, è la conquista progressiva di una piena disponibilità sulla materia da parte dell'uomo e dei suoi strumenti. Attenzione: vincere la resistenza della materia è proprio il senso genuino del lavoro, come ricordava icasticamente Karol Wojtyla nel suo splendido componimento poetico La cava di pietra. Di più, ordinare alla trascendenza le “cose della vita” e instaurare omnia in Christo ricompone lo iato cartesiano fra ragione e realtà che affligge il pensiero moderno, e pone le fondamenta di quel sano materialismo cristiano, ovvero di un abito di compenetrazione con il ritmo del mondo, una corrente carsica di preparazione all'incontro con Colui in vista del quale tutto ha ricevuto il suo essere (nn. 98-99).
Altro è però abusare di questo potere ordinatore non tenendo conto di alcuni limiti al dominio assoluto: la datità antropologica dell'essere umano e la sua dignità, le norme e i tempi della natura, la stessa etica della crescita, che impone di tener conto del legame di prossimità che avvolge popoli e territori, seppur lontani sulla carta geografica. Tale abuso viene identificato dal magistero sociale di Francesco con l'etichetta di “paradigma tecnocratico” (nn. 106 e ss.), con ciò riassumendo un fascio di proposizioni, visioni e azioni riduzioniste e relativiste (n. 122), nel senso che legittimano la realtà sulla base di meri rapporti di forza e prevaricazione: di una ideologia omogeneizzante sul naturale pluralismo delle élite, delle direttive delle élite sul senso comune del popolo, di popoli “privilegiati” su altri popoli che non lo sono, fino ad escluderli.
Come la globalizzazione, che si presta a diverse interpretazioni, così quello di tecnocrazia rischia di essere un concetto vischioso per gli interpreti, che da Saint-Simon in giù ne hanno offerto valutazioni spesso discordanti. Tuttavia lo si può agevolmente inquadrare in quella critica sistematica alla corruzione degli individui e delle istituzioni, che è stata centrale nella predicazione di Bergoglio ancor prima della sua ascesa al soglio di Pietro. La corruzione ha un doppio volto: da un lato, porta a perseguire il proprio interesse o profitto a scapito degli altri o semplicemente a prescindere dai loro desideri o diritti; dall'altro (ed è la versione più suadente e “progressista”), essa conduce a sostituirsi agli altri nelle scelte fondamentali della vita, con la pretesa di conoscere il bene altrui meglio dei diretti interessati. È quella “presunzione fatale” che sfocia in assistenzialismo, cui l'esortazione Evangelii gaudium (nn. 202-204) rivolse strali impietosi e senza appello.
Sulla scorta di ciò, il referente ideologico di questa tecnocrazia risulta piuttosto chiaro: il liberalismo keynesiano di marca interventista, che ha plasmato le grandi scelte di politica mondiale già a partire dalla grande crisi del '29 e che oggi tende ad essere riproposto per analogie forzose da circoli intellettuali e finanziari che godono di buona stampa. Il lettore non si inganni: ciò che viene sovente bollato come “neoliberismo” altro non è che la vecchia ricetta dirigista e nulla ha da spartire con le positività di quella economia libera che s. Giovanni Paolo II nella Centesimus annus lodava come fonte di uguaglianza, innovazione e certezza del diritto. Prova ne sia la lucidità di quei passaggi dedicati da Francesco a ribadire la concezione poliarchica della società evidenziata dal n. 57 della Caritas in veritate: non sarebbe corretto un primato dell'economia sulla politica (n. 196) o sulla religione (n. 199) né viceversa, perché tutto il meccanismo di competizione e cooperazione tra le sfere di produzione del sociale è piuttosto sottoposto “al servizio della vita, specialmente della vita umana” (n. 189).
Allo stesso modo, il Papa rivolge ripetutamente (n. 114, 191, 193) agli operatori socioeconomici l'invito a rallentare la marcia di un sistema economicista o “turbocapitalista”, incentrato cioè su una inesausta volontà estrattiva delle risorse naturali e più propriamente umane (come lo sfruttamento del lavoro, doveroso leitmotiv degli appassionati interventi di Francesco, in Sardegna, a Napoli, ecc.). Urge d'altra parte far chiarezza sul senso autentico di questo rallentamento, dal momento che esso è chiamato nel documento – invero un po' goffamente, come ha notato pure Stefano Zamagni in una intervista su “Avvenire” – anche con l'ambiguo appellativo di “decrescita” (n. 193). Per un verso, basti qui trasporre alla vita economica quell'antico adagio valido per la vita spirituale, nella quale ogni mancato avanzamento corrisponde ad un regresso. Per altro verso, occorre tener sempre presente il combinato disposto tra bene comune, dignità umana, solidarietà e sussidiarietà come le quattro gambe su cui si regge la dottrina sociale della Chiesa. E da qui felicemente inferire che tale “rallentamento” implichi piuttosto una rimodulazione tra questi elementi in senso tutt'altro che conservativo di privilegi o rendite di posizione. Non si tratta cioè di rigettare radicalmente qualsiasi meccanismo di produzione di merci e di valori, quanto piuttosto di denunciare e ribaltare quelle modalità organizzative che penalizzano la proprietà privata diffusa attraverso ad esempio il controllo oligopolistico della distribuzione, che spesso impedisce ai piccoli produttori locali di accedere ai mercati (n. 129).
In altre parole, occorre sostituire una logica del consumo con un atteggiamento di crescita responsabile, consapevole, solidale e sussidiaria, come tempo fa ha evidenziato Flavio Felice individuando nel risparmio e non già nel consumo il vero motore dell'economia libera e l'antidoto all'oppressione dell'individuo da parte delle mode ovvero del controllo eterodiretto dei nostri stili da vita da parte dei poteri forti. Cruciale in tal senso, oltre all'impegno personale, anche il ruolo delle istituzioni (n. 142) chiamate a rivestire un costante e insostituibile valore regolativo. Tra di esse, naturalmente (ma non forzatamente al primo posto) c'è lo Stato, il cui ruolo non è certo residuale, quanto piuttosto circoscritto e definito.
Infatti, come dicevamo, il paradigma assistenzialista onnicomprensivo già sanzionato nella Evangelii gaudium è qui sostituito da una formula funzionalista, in cui lo Stato ha compiti precisi di coordinamento, incoraggiamento e facilitazione (n. 177). Ad una migliore definizione di questo perimetro confidiamo possano essere dedicati i successivi documenti magisteriali sulle questioni sociali, magari proprio a partire dall'impegnativa asserzione che “l'ecologia sociale è necessariamente istituzionale” (n. 142), interpretabile intanto come perfezionamento della straordinaria intuizione di una “via istituzionale della carità” riportata al n. 7 della Caritas in veritate.
3. Il dilemma del fariseo
Infine, mi sia concessa una breve considerazione, anche personale, su un punto molto delicato, che tocca le condotte e i destini, anche nella stessa Chiesa, di quanti sono convinti di essere buoni cristiani (n. 217), ovvero cristiani che hanno sperimentato più volte, nei loro fallimenti personali, il senso del limite dei propri peccati. Per costoro, il peccato non è mai un fatto sociale, se non nella misura in cui i nostri errori pesano sulle vite di chi ci sta attorno e condivide con noi la dura battaglia; ma l'imputabilità resta personale, così come la grazia misericordiosa della conversione concessa dall'abbraccio benedicente del Padre.
[**Video_box_2**]Ebbene, molti di loro si sono spesso sentiti accusati nel loro stile di vita dalla predicazione del Papa argentino. Come l'illuminismo pretendeva di sottoporre a critica i falsi miti della tradizione per edificare una cittadinanza nuova, così accade con lo sforzo chiarificatore di Francesco sui fondamenti della fede, affinché venga ricostruita una ecologia umana dalle ceneri dell'antropologia borghese. Magari spesso questi cristiani sono stati tentati di ridurre la dottrina sociale della Chiesa ad una funzione di conservazione, a giustificazione cioè di uno stato di cose che legittimava gli squilibri esistenti più che lottare per una maggiore inclusione. D'altra parte, è ingeneroso non riconoscere i loro sforzi nel coltivare il giardino del mondo con gli strumenti disponibili, a partire dal magistero sociale cattolico degli ultimi trent'anni, e dalle teorie delle scienze sociali con esso non incompatibili.
In definitiva, il loro duplice tormento è tutto qui: nel sentirsi costantemente rivolgere quelle parole terribili ("Guai a voi scribi e farisei ipocriti!"), e a loro volta esclusi da una beatitudine che pare oggi riservata ad altri, a quanti non tengono in conto le logiche del mondo, e sopperiscono con generose utopie alla loro a tratti disarmante mancanza di realismo. Ma tutti dovremmo ricordare che Dio parla nei segni della storia, non meno che nei sogni dei profeti.
L'autore è Direttore Ricerca e Formazione del Centro Tocqueville-Acton