San Francesco? No, Nietzsche
In una indimenticata pagina dei “Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie”, Marx tesse, in formulazioni inaspettate, le lodi delle tecnologia. Essa cambia, in senso progressivo, la storia dei modi di produzione e delle formazioni economiche umane. Riprendendo gli entusiasmi hegeliani e umanistici dei “Manoscritti” giovanili (l’homo faber che forgia una “seconda natura” rimpiazzando la prima) il filosofo di Treviri, nel celebre “Frammento sulle macchine” nei “Grundrisse”, si dilunga in una commossa laudazione delle “macchine”, organi della “volontà e dell’intelligenza umana, create dalla mano umano” che trasformano il “sapere sociale generale, la conoscenza… in forza produttiva immediata” e realizzano il modello di societa’ avanzata in cui “le forze vitali (naturali) passano sotto il controllo dell’intelligenza generale”. In tale stadio dello sviluppo, conclude Marx, “il lavoro, isolato e immediato, cessa di essere la base (miserabile) della produzione”. A esso si sostituisce, come base, l’intera ricca e complessa architettura “dell’attività sociale”, del sapere generale, della conoscenza. Questa “combinazione” diventa, conclude Marx, il “nuovo produttore”. Righe sconvolgenti. Di ottimismo tecnologico. Di quel Frammento, checchè ne abbia scritto il professor Negri, non passerà traccia nell’opera maggiore di Marx: un appunto disperso. Fu un peccato capitale. Fu questa rimozione a fare del “Capitale” un monumento, quasi unico, di predizioni smentite ed ipotesi inverificate. Il “Frammento” confutava la base e la logica del “Capitale”. Ne smontava le pretese. Lo delocalizzava. In luogo dell’ingenua e arcaica critica stagnazionista di società malthusiane e protocapitaliste, fondate sulla “base miserabile” dell’espropriazione del plusvalore e destinate al crollo per sottoconsumo, il “Frammento” alludeva ad un altro racconto: ottimista, liberatorio, progressista. In cui la tecnologia consentiva l’affrancamento dai limiti, il dominio produttivo della conoscenza, le possibilità affluenti di economie liberate dalla “base miserabile” dello sfruttamento delle “forze vitali” e naturali: l’energia lavorativa, il lavoro immediato. Il “Frammento”, insomma, avrebbe probabilmente tenuto il marxismo, cosa che non è stata, nella “nuvola” delle interpretazioni vincenti del capitalismo del Novecento.
Molti passi della Laudato si’ echeggiano il fraintendimento della tecnologia così apertamente demolito nel “Frammento” dei “Grundrisse”. L’enciclica orecchia, con furia romantica, tutto il corredo concettuale, spiritualista e nichilista, da Nietzsche a Spengler ad Heidegger, della critica della tecnologia nell’Europa tra le due guerre. Affonda la penna nelle suggestioni francofortesi per finire con le lezioni di Jonas sulla nuova etica nell’epoca del “potere smisurato della tecnica”. Una copiosa letteratura “europea” che fa da sfondo alla rivendicazione papale di un’ecologia integrale. Ma l’intento dell’enciclica, contro la tecnologia, va oltre questa letteratura europea. Che riflette angoscia da società ricca. All’enciclica interessa altro: stabilire un rapporto diretto di consequenzialità tra tecnologia e povertà. Imputando alla tecnologia le “fragilità” del mondo di oggi, la Laudato si’ si colloca all’esatto opposto dell’elegante “Frammento” di Marx: lì la ricchezza (pensiero, potenza intellettiva, tecnica, sapere generale) è la base di una tecnologia che libera dalle costrizioni, qui la deprivazione, con l’espropriazione e il saccheggio delle risorse dei poveri del mondo, è la base della tecnologia che opprime, asservita alla finanza. Insomma, torna a valere la “base miserabile”: la dialettica pauperista della merce lavoro trasferita su base planetaria. E’ il vademecum di ogni terzomondista. Ma, anche, un racconto del mondo privo di ogni effettività.
Nessuna statistica e tabella economica, sulla realtà degli ultimi 50 anni, autorizzerebbe questa interpretazione del rapporto tra tecnologia, progresso e povertà. Nulla, nei dati reali, autorizza questa mitologia terzomondista e malthusiana dell’impoverimento. All’opposto. I numeri dicono altro. Così come lo dicono le statistiche della globalizzazione: mai, nella storia delle formazioni umane, la celerità del passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo ha conosciuto, per miliardi di uomini e donne, i tassi degli ultimi 50 anni. Interi continenti, l’Asia e mezza America latina, sono passate dalla miseria allo sviluppo nell’arco di una generazione. Persino in aree dell’Africa, la dinamicità dello sviluppo dimostra che quel continente potrebbe giocare la sfida della modernizzazione. Mai l’aspettativa di vita si è allungata con la velocità degli ultimi decenni. E, all’opposto, mai la mortalità infantile o la povertà assoluta si sono ridotte, in progressione relativa, come nel cinquantennio che abbiamo alle spalle. La distanza della povertà assoluta e di quella relativa, globalmente, si accorcia, con buona pace di Piketty. Il catastrofismo sociale, che l’enciclica adombra come “reale”, non ha base nei numeri. Nessuna redistribuzione alla rovescia. Mentre il mondo ex-povero (pensiamo alla Cina, all’India o al Brasile, all’Asia) cresce a due cifre, le società ex ricche crescono poco o ristagnano. L’enciclica si accanisce contro una rappresentazione, l’impoverimento crescente, improbabile, residuale e fantasmatica.
Il “lamento degli abbandonati del mondo”, prodotti dalla invadenza della tecnologia, è però solo uno dei gemiti che si levano ad indicare la fragilità del mondo. L’altro è il lamento di “sorella terra”, offesa da due secoli, gli ultimi, di maltrattamenti e offese: l’intera modernità. Tutta la storia che si origina con la Rivoluzione industriale è una storia di degrado e offesa del mondo, della casa comune. La condanna del “paradigma tecnologico” non poteva essere più radicale. Più che ai controversi dati sociali sull’impoverimento del mondo, l’enciclica si inchioda al mito della catastrofe ambientale, il gemito di sorella terra, e dell’esaurimento prossimo venturo delle risorse ambientali di base: acqua, terra arabile, foreste, fonti fossili. Saremmo vicini al limite fisico di risorse vitali finite. La voracità dello sviluppo ha ormai saccheggiato la Terra. E corrotto i modelli di consumo. Ai bisogni umani si sostituisce la domanda indotta dall’alleanza tra profitto e tecnologia che induce a comportamenti “suicidi” ed abitudini nocive: quelle di usare intensamente “condizionatori d’aria”, per esempio. Chissà perché? Trattandosi di enciclica, il pathos apocalittico contro le “abitudini e i comportamenti nocivi dell’uomo” raggiunge toni inediti di severità per la teologia cristiana. Il grido contro l’umanità che “ha deluso l’attesa divina” è senza precedenti. Come le creature di Dostoevskij che “spinte all’ultimo confine, passano sempre il limite”, gli uomini, agli occhi dell’enciclica, si sono macchiati di un azzardo spudorato: hanno compromesso il dono del Creato. Un’ansia pessimistica che assume, in certe pagine dell’enciclica, la severità di una condanna antropologica. Quasi a segnalare che la parte ricca dell’Umanità si è fatta responsabile di una seconda violazione del frutto proibito. L’uomo ha frainteso il precetto biblico, che pure affermava “andate e soggiogate la natura”.
[**Video_box_2**]Doveva, nel disegno divino, “custodire e curare il creato”. Invece ne ha violato l’integrità e alterato colpevolmente gli equilibri. L’uomo ha frainteso il dono della “somiglianza con Dio”. Pretendendo una collocazione dominante. Una colpa quasi irrimediabile. La pena ha il sapore di un’innovazione teologica: la retrocessione dell’uomo nella gerarchia del Creato e nella sua geografia. Una sorta di rivoluzione tolemaica: la rimozione dell’uomo dalla centralità conferitagli dalla “somiglianza con Dio”. Il rovesciamento delle gerarchie. E’ ora che le altre creature rivendichino la loro parità. E il pagamento dei loro crediti. La “colpa” della mancanza di compassione verso le creature della Creazione, fratelli e sorelle “violati”, nel linguaggio naturalistico suggestivo e nella poetica antropomorfica del frate di Assisi, richiede lo stepping back dell’Umanità. E’ tempo che l’Umanità affronti un’epoca di autocontenimento, di limitazione, di rientro dagli eccessi. Di pentimento. Nella forma di un drastico ridimensionamento di volontà, pretese e ambizioni, di un depotenziamento, di una radicale diminuzione di aspettative e possibilità, di rimpicciolimento della sua potenza “mentale” che si rivela così negativa per la casa comune. E’ una prospettiva antropologica penalizzante e, anche, nuova rispetto alla tradizione dell’umanesimo cristiano postmediaevale e riformato.
Ma poi: è proprio vero che, come Demoni di Dostoevskij, abbiamo passato il limite? La Terra è davvero un pianeta spento, entropico, destinato a cedere al “calore inutile” e alla debilitazione termica indotta da comportamenti antropici nocivi? Esiste davvero un limite di esaurimento delle risorse energetiche? Da 50 anni, tanto datano i primi allarmi sui costi dello sviluppo e la celebre denuncia del Club di Roma del 1972, si tenta, invano, di fissare il termine delle risorse finite, il confine, il limite. Ma esso si sposta sempre in avanti. La tecnologia e la produttività aggirano i limiti fisici. Nessuno oggi se la sentirebbe di fissarne uno, ad esempio, per le risorse fossili. Ma neanche per le terre arabili. E neppure per l’acqua, in un mondo che può desalinizzare i mari con le loro portate infinite e rinnovabili. E il clima? Perché nessuna ecologia, compresa quella “integrale” dell’enciclica papale, si decide a scommettere sulla tecnologia, invece che sui divieti, le penalizzazioni, le tasse e le proibizioni, per arginare i cambiamenti climatici? Il Papa invoca fonti energetiche soft e rinnovabili in sostituzione di quelle hard dei due secoli di modernizzazione che abbiamo alle spalle. Ma davvero pensa il Santo Padre, che le cosiddette energie rinnovabili possano essere generate e utilizzate, come egli auspica, in società a bassa intensità tecnologica? Ingenuità. Illusione. Idillio pastorale. Contenere la tecnologia, oltre che illusorio, è un misfatto. Per i poveri del mondo innanzitutto. Che da un’epoca di frugalità tecnologica, di contenimento, di regresso della “potenza mentale” dell’Umanità, come l’enciclica auspica, ne sarebbero solo moltiplicati nei numeri. Ogni generazione nella storia umana, ha scritto l’economista Paul Romer, “ha percepito il limite delle risorse disponibili e l’ansia di un suo effetto catastrofico sulla vita dei contemporanei. Ma la cosa non si è mai avverata”. Grazie alla tecnologia. A nessun paese o popolo del mondo, dovrebbe saperlo il Papa sudamericano conoscitore degli strampalati esperimenti sociali rivoluzionari e delle mitologie e teologie utopistiche della liberazione, si dovrebbe lasciar credere che potrebbe mai fuoriuscire dalla povertà se resta intrappolato nella prigione d’acciaio del ritardo tecnologico.
Editoriali
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l'anticipazione