Addio a Don Ciccio, il tomista caritatevole
Don Ciccio era il prete che ciascuno vorrebbe avere incontrato nella vita. A tavola, dove faceva con grazia e sobrietà la sua figura di commensale, saltabeccava tra argomenti di quotidianità, teologici, politici, ecclesiastici, ma (come gli dissi una volta tra sorrisi) tentava sempre di convertire a sorpresa l’interlocutore prima ancora che venisse servita la frutta. Da sacerdote attivista, militante, costruttore di socialità e di quella che nella sua chiesa considerava la verità, la sola verità di fondo della fede, aveva una pazienza infinita e aveva fretta, e le due cose erano distinte ma inestricabili.
So poco della sua stagione aurea, dell’amicizia con don Giussani e del fervore di combattimento tipico dei movimenti ecclesiali della seconda metà del secolo scorso, e di Comunione e liberazione su tutti; ma quel poco che ne so lo ritrovavo tutto, come tempra razionale, come capacità di dialogo, come intuito della persona, del suo peccaminoso orgoglio e della sua insopprimibile libertà, nelle conversazioni, anche pubbliche, della stagione ratzingeriana, quando le encicliche papali parlavano di speranza paolina, di cose non vedute che pure sono, di patristica e di filosofia, fino a Kant e a Nietzsche, e le questioni di società erano sussunte sotto la categoria della politica intesa come la forma più alta della carità. Se ne parlava nei teatri di Catania, nei palazzetti dello sport di Milano, nelle sale d’albergo trasformate in seminario, c’erano un interesse, un pubblico, una felice disposizione a vedere nelle cose per poter guardare magari oltre le cose.
Francesco Ventorino era filosofo come si può essere filosofi nella fede cristiana di confessione cattolica. Per il teologo Romano Guardini, che parlava di Blaise Pascal, in un certo senso non si può essere “grandi cristiani” o “grandi filosofi cristiani”, perché la filosofia come discorso comincia e finisce nel possente e umile silenzio del credere, in quel particolare cammino che è, per le genti di intensa devozione e di irresistibile vocazione alla verità, il cammino del Signore. Don Ciccio era di formazione un tomista, aveva l’imprinting del pensiero accudito e coccolato nella stagione della sua formazione, quando la chiesa cattolica difendeva sé stessa, perfino con troppa convinzione. Quel che pensava della vita, del matrimonio (tema di suoi saggi pieni di sensibilità), della coscienza personale, del peccato, dei criteri che guidano l’esistenza moderna se ne stava non chiuso e arcigno ma certo fortificato e ben difeso, à la Chesterton, entro le categorie del realismo. La sua materia non era la mistica, nemmeno come risposta alla crisi delle forme cristiane di vita. Se c’è del vuoto, pensava, è un vuoto di comprensione, di articolazione nel presente della forte storicità del cristianesimo, il tormentone giussaniano dell’incontro personale che decide, della storicità assoluta del racconto evangelico. E quel vuoto non lo si può riempire altro che con il pieno di una fede esposta alla ragione e di una ragione esposta alla fede. In lui parlava certo anche la coscienza personale dei tanti giovani che aveva seguito, organizzato, istruito, insomma il riverbero del loro essere per sé e per gli altri, ma non il cuore solitario e orante; in lui parlava un’esperienza dotata di intrinseca politicità, legata per vie ecclesiali alla vita sociale e alla faticosa militia Christi.
Era un uomo che sapeva sorridere, sapeva fare e sopportare la fatica di fare, sempre in giro con valigie pesanti, sempre incantato dalle opere di carità, magari le ultime o penultime per i carcerati di Catania, e dall’evangelizzazione come istruzione, tirocinio della fede, organizzazione del pensiero. Maurizio Crippa gli dedicò un ritratto di smagliante bellezza nel Foglio. Aveva messo in piedi un suo cortile dei gentili quasi personale, raccogliendo filosofi postmarxisti, oratori senza fede confessionale un po’ svitati e altri amici in una compagnia di giro che si teneva ai margini dei circuiti ufficiali ma al centro di un interesse vero di tanta gente comune. L’ultimo periodo della sua esistenza sacerdotale e del suo attivismo illuminato deve essere stato un po’ complicato, Cl non sa più tanto che fare e come farlo, e qualche volta si rifugia nel non fare, produce l’attesa come esercizio spirituale, un circuito mentale e psicologico che credo fosse del tutto estraneo ai rendiconti esistenziali dell’amico e allievo di don Giussani.
[**Video_box_2**]L’interesse pubblico e memoriale della persona che ha lasciato questo mondo è che con i modi tranquilli del prete diocesano, ma dentro la disciplina, i rigori militanti e le avventure di un movimento di popolo e di idee come Cl, don Ciccio era due in uno: dei derelitti si occupava con lo stesso animo raccontato da Adriano Sofri nel suo libro sulle prigioni degli altri: “da piccolo andavo al mare per paura che le bottiglie dei naufraghi non fossero raccolte”; e poi voleva intensamente evitare il naufragio della civiltà cristiana, qualunque cosa questo significhi per chi legge, qualunque cosa significasse per lui. Per questa politicità caritatevole don Ciccio era circondato dall’innamoramento dei suoi e dei suoi amici più lontani per esperienza e per tratto personale, e tutti lo veneravano come quel prete di passaggio che ciascuno vorrebbe aver incontrato nella vita.
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