Visto, vitto e alloggio: così si esfiltrano i cristiani dallo Stato islamico
Roma. Quarantadue famiglie siriane cattoliche, lo scorso luglio, avevano raggiunto Varsavia, scampando alla persecuzione contro le minoranze attuata dalle squadre jihadiste guidate da Abu Bakr al Baghdadi. A salvarle era stato l’intervento di George Weidenfeld, Lord britannico nato a Vienna, editore e filantropo sopravvissuto all’Olocausto. “Noi abbiamo un debito di gratitudine. Negli anni Trenta, migliaia di ebrei, soprattutto donne e bambini, furono aiutati dai cristiani che si sobbarcarono enormi rischi personali per salvarli da morte certa”, aveva spiegato al Times di Londra il novantacinquenne cofondatore della casa edtrice Weidenfeld&Nicolson. “Il primo obiettivo è portare i cristiani in un rifugio sicuro. L’Isis non ha precedenti quanto a ferocia primitiva, anche se comparata al più sofisticato nazismo”, aveva detto. Come del resto aveva spiegato suor Diana Momeka dinanzi alla Commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti americana, lo scorso maggio: “Il piano dello Stato islamico è di eliminare i cristiani dalla regione e ripulire la terra di ogni prova che noi siamo sempre esistiti lì”.
Lord Weidenfeld aveva anche chiarito quanto era disposto a spendere per il suo progetto: 390 mila dollari a copertura del sostegno (vitto e alloggio inclusi) di 149 rifugiati per un periodo non inferiore all’anno e mezzo. Sul Wall Street Journal, il direttore del Westminster Institute di McLean (Virginia), Robert Reilly, ricordava che se dall’ottobre 2014 “906 rifugiati musulmani dalla Siria erano riusciti a ottenere il visto americano, solo 28 dei 700 mila cristiani siriani avevano ricevuto analogo trattamento”. Dati che, secondo Reilly, “sembrano largamente sproporzionati”. Una risposta indiretta anche a quanti, specie in Europa, denunciano presunti canali preferenziali per i profughi cristiani a scapito dei musulmani quando si tratta di concedere visti d’ingresso. Numeri, quelli evidenziati dal Wall Street Journal, che avevano portato il vescovo curdo di Erbil, mons. Bashar Warda, a domandarsi perché le autorità di Washington negassero il visto ai cristiani. “Dopo il 1948, gli ebrei cacciati dal medio oriente arabo avevano la possibilità di andare in Israele. Non ci sono possibilità equivalenti per i cristiani del medio oriente”, chiosa Reilly, osservando come “le conversioni forzate, le decapitazioni e le stragi dei copti sulle spiagge del Mediterraneo” sono prove evidenti del genocidio in atto. Se entrare negli Stati Uniti è difficile, in Europa è la Polonia a essere in prima linea nell’accoglienza dei cristiani in fuga dalle aree del vicino oriente passate sotto il controllo del cosiddetto Califatto islamico. In giugno, circa sessanta organizzazioni non governative locali avevano scritto una lettera aperta al governo in cui – ricordando il passato del paese invaso dalla Wermacht nel settembre del 1939 e poi finito sotto il tallone dell’Armata rossa di Stalin – chiedevano di provvedere all’assistenza e al sostegno di “quanti non possono far ritorno nei rispettivi paesi”. Patrick Sookhdeo, direttore del Barnabas Fund, organizzazione umanitaria no profit, aveva spiegato al Telegraph che la situazione tra Siria e Iraq stava ormai evolvendo in un genocidio: “Tanti cristiani britannici si sono messi in contatto con noi per dirci che hanno stanze per gli ospiti o anche una seconda casa dove accogliere cristiani siriani e iracheni”.
[**Video_box_2**] Il modus operandi del Barnabas Fund consiste innanzitutto nel premere sui governi affinché concedano il visto a quanti dimostrino di provenire dalle aree occupate dai jihadisti. Da parte sua, l’organizzazione umanitaria garantisce che si accollerà tutte le spese. E proprio la Polonia, ha sottolineato Sookhdeo, sta già provvedendo al rilascio dei visti per alcune centinaia di famiglie, grazie anche al legame che sussiste tra il Barnabas Fund e l’organizzazione non governativa polacca Esther. Una volta entrati nel paese, entrano in gioco le congregazioni della chiesa locale, da Varsavia a Katowice, da Danzica a Koszalin. Il costo totale per salvare un profugo “ammonta alla modesta cifra di 3 mila dollari, incluso il biglietto aereo e il sostegno di base per un anno”.
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