Separati, non abbandonati
L’ufficio si chiama Ufficio diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati. E già la parola scelta – fedeli, singole persone – e non coppie o sposi, dice che non è un servizio per offrire soluzioni medicamentose alle famiglie in crisi. La prospettiva è semmai simile a una consulenza giuridica, pensata per condurre il fedele a una maggior chiarezza su come debba, o possa, vivere la propria situazione: di separato appunto, a volte divorziato, con una nuova unione, ma più spesso invece no. Un ufficio della curia, che è la casa del vescovo: vicinanza e attenzione, ma anche autorità. L’idea è venuta alla diocesi di Milano, ed è il primo ufficio diocesano in Italia con un tale compito. Ha appena cominciato a lavorare, in settembre, ma sono già più di 50 le richieste di colloquio. L’arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, ci pensava da tempo, da prima del Sinodo e delle sue buriane dottrinali e pastorali. Così come sosteneva da tempo, da prima del motu proprio di Francesco, la necessità di snellire il processo per la nullità. Che è una questione squisitamente giuridica, ma la giustizia della chiesa, senza un adeguato pensiero pastorale, a chi giova? Del resto, nel motu proprio “Mitis Iudex Dominus Iesus” si legge anche: “Il vescovo è tenuto a seguire con animo apostolico i coniugi separati o divorziati, che per la loro condizione di vita abbiano eventualmente abbandonato la pratica religiosa. E quindi condivide coi parroci questa sollecitudine pastorale”. A dimostrazione che il problema c’è, non è un dibattito tra vescovi e teologi, ma per chiarire pure che non si tratta di facilitare (d’ufficio) la via verso la nullità: separazione non significa automaticamente che un matrimonio è nullo, e lo scioglimento resta, un atto giudiziale, non amministrativo.
Non è un caso che a guidare questo delicato, nuovo ufficio “sperimentale” (durata tre anni) della diocesi ambrosiana sia stato chiamato un sacerdote, un canonista, che è anche giudice del Tribunale ecclesiastico regionale lombardo (ce n’è uno per regione in Italia, non per ogni diocesi), don Diego Pirovano. Nell’ufficio ancora in allestimento in fondo al cortile maggiore dell’arcivescovado, impeccabile nel clergyman, brizzolato nei suoi 42 anni, don Diego spiega la non semplicissima materia con i modi pacati e puntigliosi di un magistrato che non sfigurerebbe a Palazzo di giustizia, cinquecento metri più in là. Soprattutto spiega il metodo e lo scopo del suo nuovo incarico. “E’ nato dal desiderio del vescovo di far sentire la sua vicinanza a questi fedeli, e il modo più forte per farlo è attraverso il suo ‘prolungamento’, che è la curia. E’ la chiesa in quanto tale che accoglie”. Statisticamente, ce n’è bisogno: “La fragilità generale attorno alla vita personale e affettiva, aggravata anche dalla debolezza nella percezione del sacramento, della sua stessa indissolubilità, sono un aspetto del nostro tempo”, dice. Ma qui non siamo in tribunale, né dallo psicologo: “Se serve, li rimandiamo al parroco, al consultorio”. Le parole che usa sono quelle di una chiesa né in uscita, né arroccata: “Un ascolto disponibile, cordiale”. Un aiuto ad affrontare le cose sotto il profilo e col metodo giuridico. “La pastorale delle coppie in crisi c’è già, ma è un’altra cosa, così come l’accoglienza spirituale”. E il tribunale ecclesiastico – cui adire per un giudizio di nullità (non annullamento: o il matrimonio era nullo in principio, o non lo è) resta l’unica sede in cui il vincolo sacramentale può essere valutato.
Allora perché una nuova struttura? Per aiutare chi? Per affrontare quale problema? La situazione è nota. Secondo statistiche recenti la diocesi di Milano è quella in cui ci sposa meno, sia con matrimonio civile sia in chiesa. Nella provincia di Milano i matrimoni sono la metà della media europea, ai minimi di quella mondiale (2,2 matrimoni su mille abitanti). In Italia i matrimoni religiosi sono calati del 23 per cento in cinque anni. Nella diocesi di Ambrogio, dal 2001 al 2011, sono crollati da 23.639 a 6.969, tasso dello 0,8 per mille. Da un punto di vista sociologico, insomma, il matrimonio religioso è praticamente sparito. Poiché invece i cristiani ci sono ancora, significa che non si sposano più. E di pari passo aumentano le coppie sposate in chiesa che si separano. Molte sono coppie straniere, provenienti da altre culture sociali. Milano, vista in questa prospettiva, è una futura chiesa di frontiera. O lo è già.
E’ un dovere, spiega don Pirovano, aiutare a fare chiarezza in queste situazioni, a recuperarle dove possibile. “Il nostro è un lavoro su quattro ambiti chiari e definiti, che stanno sotto l’ombrello di questa parola: accoglienza”. Spiega don Pirovano: “Primo, il tentativo di riconciliazione laddove ci siano le condizioni, anche se qui vengono per lo più persone da sole, non coppie, la separazione è già avvenuta. Secondo, l’aiuto a capire se la condizione di separazione è coerente con l’insegnamento della chiesa: si può essere separati per necessità, per cause oggettive, ma rimanere personalmente fedeli a quel vincolo. Insomma aiutare le persone a comprendere la loro condizione collocazione all’interno della chiesa, che non respinge nessuno. Terzo, accompagnare verso un’eventuale introduzione della domanda per lo scioglimento del vincolo. Quarto, la consulenza per istrdare alla richiesta di scioglimento, valutando i possibili casi da rinviare al tribunale per il normale processo”.
Alla vigilia della ripresa del Sinodo (4 ottobre), il cui tema è “La vocazione e la missione della famiglia nella chiesa e nel mondo contemporaneo”, il dibattito nella chiesa sembra ancor più radicalizzato tra innovatori e conservatori. Attorno, l’attenzione mediatica racconta da mesi vincitori e vinti di un derby che non si sta giocando. Il settimanale Panorama, la scorsa settimana, ha scritto addirittura, in copertina, di “picconate” del Papa al matrimonio. Poi c’è la realtà delle diocesi e dei fedeli. Il prefetto della Dottrina della fede, il card. Gerhard Müller, che non passa certo per un aperturista, ha affermato che “la mentalità contemporanea si pone piuttosto in contrasto con la comprensione cristiana del matrimonio, specialmente rispetto alla sua indissolubilità e all’apertura alla vita. Poiché molti cristiani sono influenzati da tale contesto culturale, i matrimoni sono probabilmente più spesso invalidi ai nostri giorni di quanto non lo fossero in passato”. E’ a questo livello del problema che si pone il “che fare” della chiesa, anche per una diocesi storica e importante come Milano. In quale direzione procedere? Don Pirovano fa un passo indietro, alla lettera con cui il cardinale Scola ha spiegato il ruolo del nuovo ufficio, e che parla di “attenzione alle famiglie come soggetto di evangelizzazione”. Cioè che vanno evangelizzate, per poter poi loro stesse evangelizzare. “Quindi lo spunto è che non si parte, sociologicamente, dal ‘problema’ dalla famiglia in crisi. Ma dalla sua sacramentalità. Che va ricordata anche ai separati”. Lo scopo non è bypassare la pastorale o la dottrina, né tantomeno il diritto. Non è un ufficio nato per “dare interpretazioni più restrittive, o al contrario per fornire una legittimazione a queste situazioni. Ma per aiutare a vivere all’interno della chiesa una situazione difficile”. La percezione da fuori, o il sospetto da dentro, è però proprio questa: si va verso un morbido liberi tutti. Non le pare? Non gli pare. Con calma, don Pirovano preferisce dire che se pure le separazioni aumentano, le cause di nullità sancite dal tribunale sono sostanzialmente stabili, e del resto “non sta all’ufficio stabilire se un fedele separato possa accedere ai sacramenti, ma lo scopo è aiutare a mettersi di fronte alle cose, alla loro verità. Il tema è aiutare i separati, va preso atto che queste situazioni non vanno abbandonate a se stesse”.
Don Pirovano continuerà anche a svolgere l’attività di giudice del Tribunale ecclesiastico regionale. Conosce bene anche l’altra faccia della medaglia. E’ inevitabile chiedergli che cosa ci veda, in base alla sua esperienza. E chiedergli un punto di vista sulle riforme procedurali appena introdotte dal motu proprio. Ed è inevitabile chiederglielo a partire dal ragionamento un po’ semplicistico ma corrente che la chiesa, facilitando la nullità, voglia legalizzare, a suo modo, il divorzio. “La procedura che si fa più breve non è lassismo”, risponde. “E’ una questione logica: abbreviare la procedura non equivale a dire di sì a tutti, ma solo a decidere in modo più rapido. Sono due cose diverse. Il nostro lavoro rimane sempre ‘pro rei veritate’, un giudizio di verità. Dire il contrario è senza fondamento”. La relazione del 2014 del Tribunale ecclesiastico lombardo dice, ad esempio, che nell’ultimo anno sono state decise 20 cause in meno rispetto a quello precedente. E ciò a causa di un “migliore approfondimento”, perché “la fretta è nemica del bene, né la celerità (pur certo auspicabile) è un valore superiore alla giustizia”, si legge. Nel 2014 sono stati dichiarati nulli 136 matrimoni e riaffermati 30 (c’è anche da notare che le cause pendenti erano 463 nel 2006 e sono 346 nel 2015). Quanto alle motivazioni di nullità, riguardano nella maggioranza dei casi la “incapacità psichica”, “l’esclusione della indissolubilità” e “l’esclusione della prole”. Motivazioni che non paiono dettate da direttive pastorali ispirate al sentire mondano. Del resto, aggiunge don Pirovano, “ancora nessuno ha applicato le nuove norme, si vedrà”. Tiene a puntualizzare: “C’è molta confusione, ad esempio rispetto all’espressione ‘Processo brevior’. Il quale non è assolutamente un processo sommario, né tantomeno va confuso col ‘rito abbreviato’ della giustizia laica”, che spesso si riduce a una confessione premiata da uno sconto di pena: “E’ completamente diverso. Nel nostro caso si tratta solo di velocizzare la procedura, ad esempio se ci sono aspetti già accertati, fatti chiariti, su cui non serve un ulteriore approfondimento”. E’ vero che nel processo più breve il vescovo sarà d’ora in poi giudice unico, ma pronuncerà la sua sentenza soltanto in base a una raggiunta “certezza morale”, altrimenti si riparte con il processo normale.
[**Video_box_2**]Alcuni però sostengono che così si farà tutto con “manica più larga”. Che ne pensa? “Ma questo non avrebbe potuto avvenire anche prima? Se il dubbio riguarda la qualità dell’amministrazione della giustizia, allora è un dubbio – per chi lo coltiva – che sta a monte”, ribatte Pirovano. “Il punto essenziale è che con le nuove norme non si introduce affatto un accertamento sommario: il criterio unico resta il criterio di verità e di giustizia, non è stato sostituito da un giudizio differente, amministrativo e di tipo diciamo così ‘pastorale’. No: il processo resta giudiziale, non è una ‘grazia’ concessa, nemmeno dal vescovo, non è un’assoluzione sommaria”. Ma c’è chi addirittura dubita, anche nel mondo ecclesiale, che affidare al vescovo il potere di un giudice monocratico farà nascere una sorta di “turismo della nullità”, con coppie che si trasferiranno nella diocesi il cui vescovo ha fama di maggior indulgenza. “Ma sostenere queste cose non ha alcun fondamento – si irrita, per un istante, don Diego – innanzitutto perché il vescovo non decide ‘al di fuori’ di un tribunale e di una procedura. Il suo non è un arbitrio. E se il problema fosse la sua capacità di ‘influenzare’ il tribunale, delle due l’una: o poteva accadere anche prima, o non sarà diverso oggi”. La questione, annota Pirovano, “è che sostenere queste tesi implica una diffidenza di fondo circa il ruolo del vescovo. Ma allora è un altro discorso, un problema di tutt’altro tipo”. Analogamente, ed è il motivo per cui è nato questo ufficio, non tutte le separazioni sono destinate a trasformarsi in nullità. “Ci sono matrimoni andati male pur rimanendo validi. Il fedele che pure venisse per questo, sa che non gli verrà riconosciuta una ragione che non ha. Neppure sulla possibilità di accedere all’eucaristia se non ci sono le condizioni canoniche”.
Fuori da tutto questo, fuori dall’arcivescovado, c’è un mondo di cattolici irregolari: conviventi, divorziati, risposati che non si pongono più, o solo minimamente, il problema del loro status di fedeli. Il cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, ha detto alla Civiltà Cattolica che “si può sempre imparare anche da chi vive in situazioni oggettivamente irregolari” e ha sottolineato che spesso la chiesa parla ancora “troppo astrattamente del matrimonio” senza affrontarne le condizioni reali, che sono determinate e influenzate dal contesto. Cercare di recuperare il rapporto e l’appartenenza alla chiesa e alla pratica religiosa di chi ne è lontano, a causa di una separazione, è lo scopo. Come vede don Pirovano l’atteggiamento della chiesa su tutto questo? “Credo che non ci sia indifferenza, né ‘propaganda’. Mi spiego: ci sono tutti i modi normali in cui la chiesa avvicina queste situazioni: un battesimo, un funerale in famiglia, un aiuto chiesto in parrocchia. E’ il tessuto della chiesa che non è indifferente. Ma non c’è nemmeno un sovrapporsi alla libertà delle persone”. E ora il Sinodo.
Editoriali
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