Non si riduca la dottrina a disciplina medievale, al Sinodo serve profezia
Nel Sinodo che si è aperto lo scorso 4 ottobre sta avvenendo un passaggio decisivo per la chiesa postconciliare: esso riguarda non lo scontro tra chi è favorevole e chi è contrario al matrimonio indissolubile, ma piuttosto la questione di come si possa e si debba assicurare alla indissolubilità una disciplina ecclesiale adeguata. Il problema è invece: “Come si traduce la dottrina in una disciplina”? Su questa traduzione le idee sono legittimamente diverse. Con serenità si dovrebbe quindi riconoscere che vi è una chiara comunione sulla dottrina fondamentale e che vi sono invece disparità di prospettive sul modo con cui questa dottrina deve essere tradotta in disciplina. La vera differenza, dunque, non è tra chi difende la indissolubilità e chi la nega, ma tra diverse forme di traduzione della dottrina evangelica sul matrimonio. Da una parte, infatti, osserviamo la posizione rigida di chi pretende che la dottrina possa essere tradotta soltanto nella disciplina medievale e moderna, che si è espressa quasi solo con una terminologia giuridica e che identifica – piuttosto brutalmente – le parole di Gesù con il “matrimonio rato e consumato”. Vi è qui un difetto di teologia, una riduzione del piano teologico alla norma giuridica che risulta assai allarmante. Da questa lettura, che parla un linguaggio soltanto “normativo” e che risulta pensata e collaudata in un mondo che non c’è più, si desume che la dottrina viene identificata con una sola disciplina possibile. Anzi a essa viene talmente ridotta, che ogni variante disciplinare – per quanto piccola, temporale o locale essa sia – viene immediatamente sospettata o accusata di “negare la dottrina”. Le posizioni estreme, in questo campo, hanno già sollevato il sospetto che la “riforma del processo canonico” appena realizzata da Papa Francesco sia, nei fatti, una negazione della dottrina della indissolubilità. Questa opzione, anche a insaputa di coloro che la sostengono, di fatto annulla ogni evoluzione storica e non riesce a considerare che, sul piano dello sviluppo della cultura ecclesiale, nel permanere della stessa dottrina, la disciplina matrimoniale ha subito molte modifiche, ampliamenti, restrizioni, riformulazioni lungo il corso dei secoli.
Dall’altra parte si pone chi, sulla scorta della esperienza secolare della chiesa, sa che alla medesima dottrina possono corrispondere discipline e traduzioni diverse. A questa consapevolezza ci ha condotto la grande stagione conciliare, che ci ha autorizzati a “tradurre la tradizione”. Il “principio pastorale” del Vaticano II è tutto qui: riconoscersi non solo abilitati, ma obbligati e necessitati a tradurre la tradizione. Tale consapevolezza sa che vi è una tradizione sana e una tradizione che merita invece di essere rivista e riconsiderata. Che la salvaguardia in positivo della “famiglia unita” trova forza e slancio – e non freno e ostacolo – nella misericordia esercitata verso le “famiglie allargate”. Che le “famiglie fedeli”, di fronte alla misericordia ecclesiale esercitata verso le “famiglie prodighe”, non potranno comportarsi come il fratello maggiore della parabola del Padre misericordioso. Che la “legge”, come ogni legge, non è solo “pedagogia di doveri”, ma anche “riconoscimento di diritti”. E stupisce non poco che, in tutta questa arte delle distinzioni, siano proprio i giuristi e i canonisti a essere oggi particolarmente in crisi. E’ stata la scienza canonistica ad aver sempre operato distinzioni finissime, lungo la storia, e oggi ci ritroviamo al Sinodo pastori canonisti che non riescono a suggerire una sola distinzione convincente, e che si rifugiano in posizioni indistinte, ideologiche e fondamentalistiche. Che per salvare il sacramento non esitano a sfigurare le esistenze e a ridurle al loro passato, senza poter considerare presente e futuro. Creano cosi una sorta di sacramentum contra homines, non propter homines. Ma non tutti i giuristi sono così. Vi sono, infatti, nel grande corpo ecclesiale, teologi e pastori che, lavorando anche con queste benedette distinzioni giuridiche e dogmatiche, hanno iniziato a configurare lo stile ecclesiale del futuro, quasi come profeti della chiesa che verrà. Come accade in questi casi, una buona strada da percorrere è quella della “analogia”. Usando la analogia è possibile uscire dalle secche delle opposizioni e trovare una mediazione prudente, adeguata e insieme coraggiosa e profetica. Prudenza e profezia, non di rado, si identificano. Ci sono poi circostanze particolari della vita, anche nella vita della chiesa, in cui la imprudenza massima è restare immobili. Ci sono due ragionamenti “per analogia” che meritano una grande attenzione nell’attuale dibattito sinodale: una analogia occidentale è stata proposta da mons. Jean Paul Vesco, una analogia orientale, invece, ha avanzato Basilio Petrà. Nella prima il modello è costituito da una singolare armonia tra la migliore teologia medioevale e il diritto penale contemporaneo, con una sintesi geniale e promettente. Recuperando un concetto più ampio di indissolubilità – non riferita al sacramento ecclesiale, ma alla relazione naturale – e riformulando l’adulterio come “reato istantaneo” (e non permanente) sarebbe possibile operare, sul piano formale, una riconciliazione di molte situazioni che oggi vivono una sostanziale condizione di “scomunica”. Antico e nuovo sono qui al servizio di una migliore intelligenza della verità del matrimonio. Un vescovo che non dimentica di aver fatto l’avvocato appare molto più convincente di un arcivescovo che si riduce a fare l’avvocato. Nella seconda il modello è la “economia” della tradizione greco-ortodossa, adeguata e convertita alla logica della chiesa latina, che permetterebbe di considerare il “fallimento del vincolo”, in analogia con la morte del coniuge, come una realtà che la chiesa può riconoscere, con opportuna procedura e a determinate condizioni, mediante la propria struttura giuridica e giudiziaria. In questo caso, oriente e occidente, opportunamente calibrati, si aiutano a vicenda per far fronte alle mutate realtà della vita familiare.
Queste sono riformulazioni della disciplina che, senza negare affatto la dottrina, ne offrono una traduzione pratica capace di dare ascolto alle famiglie di oggi e di parlare anche al mondo delle “famiglie allargate”, senza essere costretti a considerarle “per sempre adulterine” (salvo poi, paternalisticamente “accoglierle”, ma solo come e in quanto adulterine). Da questo prezioso serbatoio di “analogie” potrebbero venire quelle risorse linguistiche, relazionali e concettuali, che sarebbero capaci di superare la rigidità che blocca la chiesa nella assurda alternativa tra verità e carità, tra giustizia e misericordia. Se una verità non genera carità, non è la verità cristiana, ma una sua degenerazione irrigidita; se una giustizia non è capace di ampliare la esperienza di misericordia, ma sa solo restringerla e mortificarla, appare semplicemente come una disciplina ingiusta che deve essere riformulata, tradotta e ripensata. Avremo bisogno di tutta quella paziente fedeltà che non dispensa mai dal coraggio e neppure da un certa audacia. Ma una cosa è certa: senza profezia non ci sarà prudenza.
Andrea Grillo è docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione al Pontificio Ateneo S.Anselmo di Roma
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