Francesco e lo strappo di Palermo
La nomina a sorpresa come vescovo di Palermo, fuori dalla terna proposta dai vescovi cointeressati, di un parroco cinquantatreenne di sicura osservanza lercariana e dossettiana è indizio di qualcosa di importante. Giacomo Lercaro, fuori dalle caricature che ne fecero un cattocomunista, fu carismatico e spavaldo difensore di una visione profetica della chiesa come chiesa dei poveri e per i poveri. Il cardinale Biffi, suo successore a Bologna, visse gli ultimi anni da emerito nella residenza da Lercaro costruita come opera missionaria, e ne parlava come di un uomo di Dio pur essendo lontanissimo dalla sua concezione pastorale e teologica (basti pensare che il provocatorio e spregiudicato e liberissimo antimoralista Biffi scrisse un opuscolo per sostenere che Cristo, maestro di giustizia di misericordia e di povertà, era tuttavia ricco e amico dei ricchi senza scandalo o problema). Don Dossetti fu asceta e politico impegnato nel tentativo, che fallì, di trasformare il Concilio, come perito giuridico di Lercaro, in un potere costituente e di rifondazione ecclesiastica (Dossetti è l’uomo per antonomasia dell’ermeneutica della rottura e della discontinuità conciliari, quella messa in discussione dall’interpretazione di Benedetto XVI nel discorso alla Curia romana). Quindi nessuno scandalo, il nuovo vescovo di Palermo non è un cavallo di Caligola, ma il suo nome porta con sé una carica connotativa particolare e un segno di metodo da capire, anche perché alla nomina si è arrivati per effetto del consiglio di un circuito o di una côterie anch’esso molto particolare (Alberto Melloni, Pino Ruggieri, Nunzio Galantino e l’operoso reverendo padre Spadaro, tra i pochi altri che hanno suggerito con successo lo scavalcamento delle indicazioni vescovili). Va bene che il Papa Francesco eserciti in piena indipendenza i suoi poteri, salvo obiezioni canonistiche che qui adesso non sono pertinenti, ma lo strappo di Palermo ha un suo volto un po’ truce alla luce di altri strappi.
Cortigiani militanti del nuovo papato, numerosi intellettuali cattolici americani, come ricordava ieri Benedetto Moretti ai lettori di questo giornale, hanno sottoscritto un appello intollerante contro il columnist non allineato del New York Times, Ross Douthat, imputato di lesa santità per aver esercitato la sua libertà laica di opinione in contraddittorio con le linee pastorali e teologiche del pontificato. L’attacco è ad hominem, e ha toni intollerabilmente censori. Ora, scavalcare i vescovi e aggredire opinionisti cattolici non allineati, magari in nome della tolleranza, della misericordia e della libertà di coscienza, può essere un’aspirazione di settori del clero e del laicato impregnati di una cultura di rifondazione della fede e della prassi pastorale e teologica della chiesa, che identifica in Francesco il suo araldo. Ma è lecito considerare che il Papa gesuita dovrebbe portare un’attenzione prudente a certe pratiche. Il rischio di una destrutturazione divisiva della chiesa cattolica, nel segno di una rivoluzione dall’alto che campeggia come aspirazione nei media del mondo secolarizzato, porta con sé la possibilità di un esito, se non autoritario e non comunionale, per lo meno intollerante e brusco nei mezzi impiegati. Con conseguenze opache. Nell’intervista già celebre al direttore di Civiltà cattolica padre Spadaro S. I., Francesco raccontò la propria esperienza di religioso e di pastore in Argentina, tra la provincia gesuitica e le diocesi in cui operò, come segnata da una brutalità di tratto di cui si rammaricava: bisogna ascoltare di più, circoli più larghi, e prendersi il tempo giusto per la decisione, così disse nel rimpianto di aver disegnato di sé, con atti troppo spicci, l’immagine addirittura di un pastore della “destra cattolica”. Quell’immagine non dovrebbe essere sostituita dal suo opposto simmetrico, il Papa ha funzioni, e un munus, che richiedono universalismo nella conduzione non meno che nella ricezione dei suoi atti sovrani. E poi, per quanto il grande teologo e predicatore Bossuet fosse nemico dei gesuiti, ebbe la magnanima e caustica ironia di definire i soldati di sant’Ignazio come “maestri di benevolenza”. La storia dimostra che questa benevolenza è stata esercitata up to a point, e spesso si è trasformata nel suo contrario. Vogliamo ricominciare? E questa volta dal vertice carismatico di una chiesa in turbolenta trasformazione?
Vangelo a portata di mano