Gli argomenti teologici del gesuita Martin per scomunicare Douthat
New York. Fino all’intervento di padre James Martin S. I., quella fra il columnist del New York Times Ross Douthat e il professore di Teologia Massimo Faggioli non era che una schermaglia teologica a mezzo Twitter. All’apparire della parola “eresia” è diventata una zuffa, ma sostanzialmente la disputa era la rappresentazione in scala di uno scontro fra due visioni della chiesa, roba forte ma leale, che talvolta può pure sfociare nel grottesco, come nel caso della richiesta di sollevare Douthat dal suo ruolo di opinionista.
La lettera al direttore del Times trasuda una volontà di censura che mal s’accorda con l’immagine della chiesa misericordiosa che gli scriventi si arrogano di proiettare, pretendendo pure l’esclusiva, ma non va oltre il perimetro del fair play e della parresia. Padre Martin S. I. ha voluto portare la questione a un livello più profondo con un lungo intervento sulla rivista dei gesuiti americani, America. Concede che la missiva esibisce una scelta delle parole discutibile, specifica che Douthat – che quando parla di teologia viene da lui descritto più o meno come un cieco che spiega la Cappella degli Scrovegni – “dovrebbe essere libero di scrivere ciò che vuole” su qualunque argomento. Basta che si sappia che quando editorialeggia di cristianesimo non sa di che parla. La questione vera, profonda, è l’uso della parola “eresia” e il ricorso ad attacchi personali, che, scrive, sono cose “disgustose”, l’equivalente di accusare qualcuno di avere commesso abusi sessuali. Ma c’è dell’altro.
Padre Martin S. I., protetto dalla sua formidabile fama e dalla certezza di trovarsi dalla parte giusta della storia della chiesa, diventa l’avvocato d’ufficio di tutti coloro che sono stati colpiti dalle offese di Douthat – da padre Antonio Spadaro S. I., tacciato di essere un “sofista”, al teologo John O’Malley S. I., fino naturalmente al Papa, il bersaglio grosso – e accusa non già di laica calunnia ma di peccato. In base a un caso costruito con perizia gesuitica stabilisce che dare di eretico è peccato, dire a Spadaro che usa metodi propri della sofistica è peccato, rivolgere con leggerezza parole come “apostata” e “scisma” a chicchessia è peccato. Sia anatema. Quello che fanno Douthat e altri commentatori a lui consentanei è propagare “hatred”, odio. Chiunque si dedichi a questa attività non può fare teologia, si squalifica di fatto dal campionato dei commentatori di cose cristiane, e per questo la lettera scritta in modo un po’ approssimativa è vera nello spirito, dice padre Martin S. I. Non cade nell’ovvio tranello di restituire a specchio l’accusa di eresia, e non mette in questione la fede di Douthat, ma certifica che “si sono impegnati in quel tipo di comportamento non caritatevole che ha generato un’atmosfera di odio e diffidenza nella chiesa”, e mette in guardia il lettore: quando leggete i suoi attacchi personali e intrisi di malizia “non state leggendo teologia ma state leggendo odio”.
[**Video_box_2**]Odio è parola strabordante di sottotesti culturali e politici. L’hate speech è un male tanto pervasivo da comprimere il diritto all’espressione sancito nel Primo emendamento, ma spesso viene usato per mettere a tacere le voci fuori dal coro, le opinioni non assimilabili. Facebook con le regole di condotta sull’hate speech ha separato il lecito dall’illecito nel discorso pubblico. Padre Martin S. I. è uomo di mondo e sa che per colpire l’avversario (cattolico) non basta accusarlo di essere un “hater” ma occorre far discendere l’odio dal peccato, una specie di cristianizzazione dell’hate speech. E’ il comportamento peccaminoso di Douthat il centro della polemica di padre Martin S. I. Quando lo leggete, questo il messaggio del sacerdote, non leggete opinioni contestabili o condivisibili oppure irrilevanti, ma leggete le manifestazioni di odio di un peccatore che si rotola compiaciuto nel suo peccato pubblicamente riconoscibile. Praticamente un divorziato risposato.
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