La Chiesa alla prova della "dottrina sul terrorismo"
Roma. La linea del Vaticano dinanzi all’avanzata jihadista nel cuore d’Europa l’ha data il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin: “La Santa Sede afferma la legittimità di fermare l’ingiusto aggressore. Poi, sulle modalità, è la comunità internazionale che deve trovarsi d’accordo e trovare le forme per farlo”. Il binario su cui agire è doppio: “Uno Stato ha il dovere di difendere i suoi cittadini da questi attacchi e nello stesso tempo però continuare a lavorare perché veramente si crei un clima di intesa, di dialogo e di comprensione. Forse – ha aggiunto Parolin, che la diplomazia la conosce – non sono soluzioni immediate, però sono le uniche che pongono le basi per un mondo riconciliato e pacifico”. Si tratta, in sostanza, di una ripresa delle parole pronunciate a braccio dal Papa durante una celebre conferenza stampa in aereo, sui cieli della Corea del sud: “Fermare l’aggressore ingiusto. Ho detto fermare, non bombardare”. Ed è proprio qui che lo storico Daniele Menozzi, cattedra alla Normale di Pisa e autore tra gli altri del saggio “Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso la delegittimazione religiosa dei conflitti” (Il Mulino, 2008), vede un “un dilemma, un problema”. Un certo “margine di ambiguità” che ha a che fare anche con la dottrina della guerra giusta riconosciuta dalla chiesa cattolica: “Francesco ha detto di non bombardare. Noi sappiamo che ufficialmente sono permesse guerre umanitarie, che consentono anche i bombardamenti. Sappiamo anche che la guerra è giusta se non si mettono in pericolo vite innocenti. Il punto è: fino a che limite si può fare la guerra senza toccare vite umana?”. “Mi pare – aggiunge Menozzi al Foglio – che ci si trovi ancora in una zona grigia, che inevitabilmente sarà chiarita con l’evolversi della situazione geopolitica”. Al momento è chiaro che la strage parigina non ha mutato l’orientamento della Santa Sede né accelerato la formulazione di una dottrina sul terrorismo, che “ancora non c’è”, dice lo storico. “Parolin ribadisce la posizione precedentemente assunta e conferma che gli stati hanno un certo margine di manovra per rispondere all’attacco e alla minaccia. Non vi è un rifiuto netto e aprioristico dell’attacco bellico nei confronti dello Stato islamico, ma questo può essere legittimato solo sotto la copertura degli organismi internazionali. Su questo punto essenziale non vi è alcuno spostamento”.
[**Video_box_2**]A oggi, vi è una “identificazione di regole etiche di carattere molto generale, con una applicazione, però, molto flessibile”, prosegue il nostro interlocutore. “La Santa Sede non ha ancora affrontato dettagliatamente l’insorgere del terrorismo, quindi la questione rimane in una zona grigia. E’ per questo che gli stati hanno maggiore libertà di movimento. Di certo, è consentitta una limitazione di alcuni diritti personali, come quello di circolazione”. Il segretario di stato si richiama al dovere della chiesa, che è quello di educare al rifiuto dell’odio e della violenza e di favorire, per quanto possibile, un dialogo con chi ci sta. Non con l’Isis, visto che lo stesso Parolin, solo qualche settimana fa a margine del convegno sul cinquantesimo anniversario della Nostra Aetate aveva sottolineato come “con chi non è sensibile e rifiuta il dialogo e quindi con il fondamentalismo, non credo che sia possibile dialogare”. E’ evidente una differenza di toni rispetto a quelli molto più bellicosi usati dalle alte gerarchie episcopali del vicino e medio oriente, dove si ha a che fare quotidianamente con i jihadisti. Se il vescovo di Erbil, Bashar Warda, già lo scorso inverno si recava in Inghilterra supplicando Sua Maestà di inviare i “boots on the ground”, i contingenti militari sul terreno, il cardinale libaese Béchara Rai, patriarca di Antiochia dei maroniti, andava a scavare la radice di quella che ha più volte definito la volontà di conquista musulmana dell’occidente: “Conquisteremo l’Europa con la fede e con la fecondità, gliel’ho sentito dire molte volte. Ne sono convinti, anche quelli che non sono jihadisti o estremisti. Quando vengono in Europa e vedono una chiesa vuota, pensano che riempiranno loro quel vuoto”. Ecco perché se ne fa, nel vicino oriente, una questione di sopravvivenza. “Una differenza sostanziale, ma che non è peculiarità del rapporto tra chiese orientali e Roma”, osserva Menozzi: “Il Papa concede una certa autonomia alle realtà locali, che non sempre sono in sintonia con la sua visione delle cose. Basti pensare alla chiesa italiana, che mi pare di poter dire che non si riconosca pienamente nel discorso pronunciato da Francesco a Firenze”.
Un dialogo che è possibile a patto di scoprire le carte sul tavolo. Padre Laurent Basanese, gesuita e docente di Teologia araba cristiana e Islamistica alla Pontificia università Gregoriana, dice che “atti come quello capitato a Parigi si ripeteranno finché delle prese di coscienza in Europa e delle misure concrete non saranno prese. Questi musulmani salafiti sono i nazisti dell’islam, e occorre essere spitetati di fronte a questi totalitarismi che promuovono tante ingiustizie, anche perché gli attentati sono solo la parte visibile dell’iceberg”. Qualche misura da prendere, padre Basanese ce l’ha in mente: “Chiusura delle moschee e delle librerie salafite, espulsione dei loro imam quando possibile. Anche perché, gli imam e gli intellettuali che non riconoscono che il male si trova nel sistema religioso come è impostato da secoli o sono ignoranti o mentono e quindi sono dei criminali”. In Italia, dice il padre gesuita, non si sono ancora sentiti imam o studiosi musulmani pronti a curare la malattia alla radice. In Francia ce n’è uno, il filosofo quarantaquattrenne Abdennour Bidar. Lo scorso inverno, Bidar aveva scritto una lettera aperta ai musulmani in cui scriveva che “il problema è quello delle radici del male. Da dove provengono i crimini di questo Stato islamico? Te lo dirò, amico mio. Le radici del male risiedono in te, il mostro è uscito dal tuo ventre, il cancro è nel tuo corpo. E così tanti nuovi mostri, peggiori di questi, usciranno ancora dal tuo ventre malato, fintanto che tu ti rifiuterai di guardare in faccia questa verità e impiegherai del tempo ad ammettere e ad attaccare finalmente questa radice del male”. Bidar ne aveva anche per “gli intellettuali occidentali”, la maggior parte dei quali “ha talmente dimenticato cos’è la potenza della religione che mi dicono ‘no, il problema del mondo musulmano non è l’islam, non è la religione ma la politica, la storia, l’economia”.