Il vescovo di strada alza bandiera bianca
Roma. “Io farei tanti passi indietro pur di mantenerci nella pace, nell’amicizia e nella fraternità. Non dobbiamo presentarci pretendendo qualsiasi cosa che magari anche la nostra tradizione e la nostra cultura vedrebbero come ovvio. Se fosse necessario per mantenere la tranquillità e le relazioni fraterne tra di noi, io non avrei paura a fare marcia indietro su tante nostre tradizioni”. L’oggetto della disquisizione sono le celebrazioni natalizie, presepi inclusi, e a parlare a Rete Veneta (quindi a prova di smentite) è il novello vescovo di Padova, Claudio Cipolla.
Monsignor Claudio Cipolla è un esponente di spicco del nuovo corso episcopale nostrano, di quella rivoluzione (Palermo e Bologna sono gli esempi eclatanti) che Francesco vuole imprimere alla chiesa italiana dopo il ventennio ruiniano. Un bravo “prete di strada”, è stato definito quando la scorsa estate il Papa – a sorpresa – lo scelse tra il clero di Mantova per mandarlo a Padova, sbaragliando l’agguerrita concorrenza di pretendenti che già vedevano pendere al proprio collo la croce pettorale. E da parroco di strada sa meglio di ogni altro, ben più di chi s’arrovella su dispute teologiche o dissertazioni sui massimi sistemi nel chiuso delle curie arcivescovili, quanto sia rischioso dire apertis verbis che se vi fosse la necessità di “mantenere la tranquillità” bisognerebbe “fare marcia indietro su tante nostre tradizioni”. Il problema, insomma, è che si inizia dalle scene della Natività e non si sa dove si va a parare.
Il presule, a ventiquattro ore di distanza, ha diramato un comunicato in cui chiarisce di “non aver mai detto ‘rinunciamo al presepe’”, ma conferma che “non possiamo utilizzare le religioni per alimentare conflitti o inutili tensioni. Purtroppo le religioni spesso sono strumentalizzate per altri interessi”. Mons. Cipolla ha aggiunto di non essere “contro la presenza della religione nello spazio pubblico, né tantomeno contro le tradizioni religiose, ma né le religioni né le tradizioni religiose possono essere strumenti di separazioni, conflittualità, divisioni”. “Il Natale, in questo senso – ha chiosato il presule nella nota diffusa dalla curia – è un esempio straordinario, un’occasione di incontro con i musulmani, che riconoscono in Gesù un profeta e venerano Maria, ma anche con persone di altre fedi e non credenti, proprio perché il cristianesimo ha un messaggio universale e abbraccia l’umanità intera. Un modo per vivere il Natale “è proprio tradurre nella vita i grandi valori del Vangelo, in cui tante religioni si ritrovano unite: pace, attenzione al Creato, solidarietà con gli ultimi”. Ma la ricetta prospettata dal vescovo – “i tanti passi indietro” – non pare aver dato risultati esaltanti ove applicata. In Francia, un anno fa, il tribunale di Nantes ordinò di trasferire altrove (cioè negli scantinati) il presepe dal municipio di La Roche-sur-Yon, in base alla santissima laicità e al principio che lo spazio pubblico non deve ammettere alcuna connotazione religiosa. Per non parlare della piccola statua della Vergine collocata in uno sperduto comune dell’Alta Savoia: una cosa “scioccante”, sbottò il leader locale socialista, chiedendone l’immediata rimozione. Polemiche “ridicole”, disse alla vigilia dello scorso Natale l’arcivescovo di Parigi, il cardinale André Vingt-Trois, ricordando come il presepe sia parte “del nostro universo culturale”, più ancora che “della nostra tradizione cristiana”. Eppure, nonostante l’attenzione maniacale nel rendere religiosamente neutri i luoghi pubblici, il modello francese pare fallito, come dimostrano le sempre più vaste e quasi inaccessibili società parallele che ruotano attorno ai borghesi e très chic arrondissement parigini. Non è rimuovendo la croce dalla bandiera occitana – se ne parla ancora, benché meno dopo il rinascimento patriottico post 13 novembre – che si può vivere tutti in pace e mantenere “le relazioni fraterne tra di noi”.
[**Video_box_2**]Non si tratta di salvaguardare fino all’estremo sacrificio – come facevano i Bersaglieri nelle trincee del Carso col cappello piumato – un simbolo posticcio, né è il caso di dar risalto ai sit-in fuori dai cancelli degli asili (con le telecamere di qualche talk-show televisivo pomeridiano a fare da contorno) di politicanti in cerca d’autore impegnati nella difesa dei presunti valori occidentali. Le parole del vescovo di Padova, la città del santo predicatore Antonio, sono il sintomo di un cedimento al quieto vivere: per non disturbare, insomma, meglio evitare quelle che potrebbero essere considerate delle provocazioni. Un’assurdità, come scriveva lunedì sul Corriere della Sera il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, quando spiegava che “se nella mensa scolastica il cibo offerto è per alcune religioni proibito, la risposta non è togliere il maiale dalle mense”. E lo stesso vale sia per il presepe sia per il crocifisso, spiega intervistato dal Mattino di Padova l’imam del Veneto, Kamel Layachi: “Ma quale offesa. Nessun musulmano cosciente può invocare la loro scomparsa. Sarebbe assurdo sul piano teologico e inaccettabile sul versante del rispetto dell’identità del popolo cristiano che ci ha accolti e che ci ospita”.
Editoriali
Mancavano giusto le lodi papali all'Iran
l'anticipazione