Toh, un Cristo è risorto
“Sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale” (Benedetto XVI, 26 settembre 2009)
Scherzava ma neanche tanto, Vittorio Messori, quando qualche tempo fa disse che non era un caso se la Madonna aveva scelto Lourdes e una giovinetta semianalfabeta per palesarsi. Insomma, apparire a Castel Gandolfo non avrebbe forse avuto l’impatto che ebbe nella Francia indelebilmente segnata dalla tempesta rivoluzionaria. E non è una semplice coincidenza se i vescovi d’Oltralpe, ogni volta che debbono riunirsi per sgranare il rosario delle chiese chiuse o demolite, analizzare le statistiche della partecipazione alla messa domenicale o per stilare comunicati in risposta al politico di turno che vorrebbe togliere la croce occitana dal gonfalone di Tolosa, si ritrovino a due passi dalla grotta ove Maria apparve a Bernadette. Quasi fosse una supplica alla Vergine perché li aiuti a rievangelizzare una terra che pure un tempo era la figlia prediletta della chiesa e che ora è divisa tra i casermoni delle banlieue che paiono piccole enclave d’Arabia in Europa e la pulizia neutralista che mira a sradicare ogni parvenza di cristianesimo insita nella storia francese.
Eppure qualcosa si muove, o quantomeno i segni di un’inversione di tendenza, nel popolo fedele – ridotto nei numeri ma assai fervente – iniziano a intravedersi. Il Figaro, qualche settimana fa, pubblicava un dossier in cui si parlava senza remore di “rivoluzione” (seppur silenziosa) in atto, sottolineando un’acclarata e sempre più evidente “dinamicità” del cattolicesimo cosiddetto ortodosso. Frenava gli entusiasmi il sociologo Yann Raison du Cleuziou, autore nel 2014 di un saggio dal titolo che più esplicito non si potrebbe (Qui sont les cathos aujourd’hui?, Desclée De Brouwer), quando sosteneva che “tutti gli indicatori mostrano che il declino c’è e che la sola religione in crescita è l’islam”. Però, ammetteva, “sta mutando il rapporto di forze all’interno della chiesa”. E il cambiamento si concretizza nell’affermarsi dei “neocattolici”, capaci di prendere il sopravvento sui “cattolici d’apertura”.
Distinzione prettamente francese, che va ben oltre il vecchio e consunto schema che tendeva a dividere progressisti da una parte e tradizionalisti dall’altra, come fossero i buoni e i cattivi nel Giudizio universale michelangiolesco. La galassia, ha scritto Eugénie Bastié, è troppo eterogenea per ridurre tutto a vetusti cliché. Lo riconoscono anche i cattolici della gauche, seppur con fastidio e a malincuore, nostalgici del “cattolicesimo da café” e della stagione che aveva nel cardinale François Marty il proprio leader spirituale: “Oggi, tutto il cattolicesimo sociale è accusato di essere responsabile della crisi più generale del cattolicesimo ed è altresì imputato di non riconoscere pubblicamente che esso stesso è il responsabile della perdita d’influenza del cattolicesimo” nel mondo, scriveva già un anno fa Vincent Soulage, militante socialista, consigliere municipale a Nanterre fino al 2008, docente di storia e ben introdotto tra i cosiddetti cattolici di sinistra.
Pare finito il tempo delle grandi aperture – per qualcuno, cedimenti – allo zeitgeist, allo spirito del tempo; così come sembra essere stata posta la pietra tombale sulla stagione degli edotti dialoghi tra maître à penser di gran fama ma poco accessibili al resto della massa cattolica. “Per i ‘nuovi cattolici’ dialogare non significa ascoltare gli intellettuali laici e rispondere annuendo, non dicendo nulla che possa offendere gli altri”, osserva Samuel Gregg sul Catholic World Report. Non si vuole più dialogare con il mondo: lo si vuole sfidare.
C’è ora una combinazione di “vecchio e nuovo”, nota ancora Gregg, che appare sulla scena virtuale, a cominciare dalla tv: accanto a figure del calibro di Rémi Brague o Pierre Manent, si trova la brillantezza di un Fabrice Hadjadj, che per spiegare quanto sia fondamentale il matrimonio tra uomo e donna, scrive nel suo ultimo libro (Ma che cos’è una famiglia?, Edizioni Ares) che “il mio ombelico come cicatrice e il mio pene come indice mi manifestano che sono grazie a un altro e per un altro, che posso compiermi solo con l’altro e anche nell’altro – non sviluppandomi ma fruttificando, cioè dando nascita a un altro (figlio) con un’altra (donna)”. Certo, osserva ancora Gregg, la bein-pensance, il politicamente corretto, continua a soffocare la vita culturale francese. Cultura che è ancora dominata da una sinistra che tende a etichettare i suoi critici come reazionari o qualcosa cui la parola ‘fobico’ può servire come suffisso. Il punto, però, è che per l’opinione pubblica i cattolici sono meno intimiditi da ciò. E questo è un contesto con il quale i pensatori laici francesi non sono avvezzi ad avere a che fare”. Il motore della rivoluzione (o rinascimento) sono i giovani, che magari non sanno neppure chi è monsignor Georges Pontier, il presidente della Conferenza episcopale nazionale, ma sanno tutto dell’abbé Pierre-Hervé Grosjean, parroco di Saint-Cyr-l’Ecole, attivissimo sui social network, ex scout (come i tre quarti degli attuali seminaristi francesi) e, soprattutto, sempre col colletto alla romana e non di rado in talare nera. Cosa che ha interdetto una nazione intera, sospettosa verso quei segni così familiari ai lefebvriani, forti oltralpe. Colletto e sottana, “portati come se fosse cosa ovvia in un mondo che cristiano non lo è più”. E’ lui, Grosjean, ad aver fornito l’immagine migliore sul nuovo corso: “Prima, il cristianesimo era un’evidenza. Adesso è divenuto una causa da difendere”.
Pare essere questa la chiave del successo, l’alchimia speciale tra la tradizione e la modernità, tra l’ancoraggio alla città degli uomini e il rigore in dottrina. Le comunità sorgono ovunque, come Noé 3.0, Nouveaux Outils pour l’Evangélisation, progetto organizzato dal cardinale Philippe Barbarin a Lione – vero epicentro della rinascita – e che ha avuto il battesimo ufficiale con l’iniziativa #Erbilight, la festa delle luci celebrata da una delegazione di lionesi nell’Iraq martoriato dalle persecuzioni. La leader, Natalia Trouiller, è riuscita nell’impresa di far diventare tendenza su Twitter l’hastag #quaresima. Ora sorride: “I cattolici francesi ce ne hanno messo di tempo per realizzare che sono una minoranza. Oggi qui non si respira più un’aria cristiana. E quando uno è minoritario, ha bisogno di armi: fare lobby è una, internet è un’altra”. Lapalissiano, e pure facile a dirsi. Eppure i risultati si vedono, nonostante i numeri, freddi e costanti da decenni, diano il senso di un’agonia: il 56 per cento dei francesi è battezzato, ma a messa la domenica ci va solo il 6 per cento. Sono trent’anni che va così, si fa sapere. Ma i cattolici in Francia non erano spariti, basti pensare alle affollate messe domenicali (ove non è raro sentir cantare in gregoriano) nel sud del paese, realtà più restia a farsi contagiare dalle cicliche folate novatrici nordeuropee che almeno da mezzo secolo propugnano un lifting alle strutture e alla pastorale cattolica. Sono un dato di fatto pure le oceaniche adunate di giovani accovacciati a Notre-Dame de Paris per la messa degli studenti e i cinquantamila ragazzi che nel 2011 andarono a Madrid per la Giornata mondiale della Gioventù (a Cracovia, il prossimo luglio, dovrebbero essere sessantamila). Il fatto è che si era come chiusi, quasi costretti a stare nelle catacombe, osservava il Figaro. Specie nelle regioni del nord, Parigi inclusa. Una presenza sterile nella società e di fatto invisibile.
L’ha capito per tempo anche l’arcivescovo della capitale, il cardinale André Vingt-Trois, che dodici mesi fa presentò – in occasione dell’Avvento – un programma di iniziative e manifestazioni affidate ai giovani per “andare a incontrare i nostri contemporanei”. Basta salotti e più strada per “testimoniare la fede”. Solo marketing, storceva il naso chi poco si rallegrava nel vedere i banchetti tra un café e un bistrot, nel quartiere latino piuttosto che a Montmartre. Diceva un parroco parigino al Monde che solo i ragazzi possono salvare la situazione, loro che sono “meno succubi del complesso di non sapere parlare bene della fede” che ha annichilito le generazioni precedenti. “I cattolici non sempre sono ricevuti bene”, ma è venuto il tempo di “esprimere ciò che sono e ciò in cui credono”. E il vicario diocesano, richiamando proprio la frattura lamentata dagli intellò gauchisti, diceva che è finito il tempo “in cui la fede è esclusivamente qualcosa da vivere nell’ambito privato”, come perorato dai cathos d’ouverture. Proprio a questo proposito, è di un anno fa il dibattito avviato dal periodico La Vie su quella che il sito Chretiens de Gauche, cristiani di sinistra, ha definito “la frattura fondamentale che attraversa oggi il cattolicesimo”. Ci sono, si legge, due criteri per classificare i cattolici. Il primo è il rapporto con il mondo, il secondo è l’importanza da dare alla religione nella sfera pubblica. Quanto al punto iniziale, la domanda è: “La nostra religione deve difendere una tradizione plurisecolare o è capace di aprirsi al mondo e dialogare con esso?”. In secondo luogo, la constatazione che la fede non occupa solamente un posto centrale nella propria vita, ma anche la rivendicazione che la religione deve intervenire nella vita sociale.
“E’ la posizione integralista”, sentenziava Chretiens de Gauche. Una visione opposta a quella dei “marginalisti”, secondo i quali la religione va vissuta nella sfera privata. In sostanza, “i cattolici d’apertura si pongono nella linea del Vaticano II, che consiste nel considerare come indispensabile e positiva l’apertura alla modernità”. Si tratta, faceva intendere padre Christian Mellon, promotore de “La politique una bonne nouvelle” e strenuo difensore dell’apertura al mondo, di quell’orientamento secondo cui il cattolico deve stare nel mondo, anche se in modo discreto. L’opposto, insomma, della strategia perseguita per decenni dall’Action catholique, quella della quasi totale invisibilità. L’importante, chiosava Mellon, è che “l’etichetta cattolica non sia esibita come una bandiera per fermare il cambiamento”. Poi c’è, dall’altra parte, il “cattolicesimo d’identità”, radicato nel magistero di Giovanni Paolo II, che “vuole riaffermare il proprio posto nella società” e privilegia certe questioni quali famiglia, bioetica e difesa della vita “a detrimento delle questioni sociali”, puntualizzano i detrattori d’oltralpe. Ma l’analisi non spiega perché a farsi largo nella minoranza cattolica francese siano i “nuovi”.
Lo scrittore e giornalista Jean Sevillia ricordava tempo fa che “è dagli anni Ottanta che assistiamo alla scomparsa dei cosiddetti cristiani di sinistra”, in particolare da quando Karol Wojtyla mandò sulla cattedra episcopale parigina Jean Marie Lustiger, ebreo convertito che vide morire la madre e la sorella ad Auschwitz. Lo chiamavano “il bulldozer”, per la sua capacità di tradurre in atti le parole d’ordine del Papa polacco, pur declinandole in una versione prettamente transalpina. Ma è altrettanto vero che “molti anziani preti hanno conservato quella mentalità” degli anni Sessanta e Settanta. Se oltre a ciò si considera poi che la Francia ha schiere intere di teologi “apparentemente ansiosi di svuotare la fede cattolica di ogni contenuto morale” con il mantra di non “sparare sentenze (eccezion fatta, naturalmente, sulle questioni ambientali ed economiche)”, si comprende perché i gruppi religiosi di fresca creazione, attivi e immersi nella società, riscontrino più successo tra i giovani cresciuti sotto il pontificato giovanpaolino. La loro stessa presenza e vitalità conferma quanto fosse stato profetico il teologo gesuita Gaston Fessard in un libro uscito postumo nel 1979, Eglise de France, prends garde de perdre la foi!. Fessard demoliva la politica sociale dell’episcopato francese attuata nel decennio precedente. Parlava di una chiesa naïf che aveva sposato un programma ideologico di sinistra, con una tendenza a distorcere la fede in una ideologia socialista e marxista. Ammoniva che, proseguendo su tale strada, la Francia avrebbe perso la propria anima, arrendendosi all’acquiescenza allo spirito del tempo. Solo una ventata d’aria fresca avrebbe potuto invertire il corso della storia.