Il battaglione di cristiane pronto alla guerra contro il Califfo in Siria
Roma. Sono poche – una cinquantina in tutto – ma determinate a combattere, kalashnikov in mano, contro gli spietati miliziani dello Stato islamico. Ormia, Babylonia e Lucia sono alcune delle giovani volontarie cristiano-siriache che hanno abbandonato casa, lavoro, famiglia e studi per andare in guerra sotto le bandiere delle “Forze femminili di protezione della terra tra i due fiumi”, battaglione creato lo scorso agosto che ha come obiettivo prioritario la difesa della provincia settentrionale di Hassaké, il cui capoluogo fu attaccato lo scorso giugno dai jihadisti e successivamente liberato dall’esercito regolare di Bashar el Assad. Il gruppo di volontarie si addestra nel campo di al Qahtaniyeh, poche miglia a sud del confine turco e non troppo distante dalla porosa frontiera orientale con l’Iraq. La giornata ha ritmi serrati: palestra, tecniche militari e studio. La maggior parte di loro porta al collo un crocefisso o un rosario, molto più d’un segno distintivo per un gruppo confessionale che rappresenta all’incirca il quindici per cento dei cristiani presenti sul territorio siriano (in tutto, almeno prima dello scoppio della guerra civile, erano un milione e duecentomila). Ricordano con fierezza di essere tra i pochi sul pianeta rimasti a pregare ancora in aramaico, la lingua parlata da Gesù Cristo. “Lo faccio per i miei figli, combatto per proteggere il loro futuro”, ha detto all’agenzia France Presse Babylonia, trentasei anni. E’ stato il marito (anche lui combattente) ad incoraggiarla, anche per smentire le dicerie secondo cui “le donne siriache sono buone solo per stare a casa a fare le pulizie”. “Io – ha detto – sono una cristiana praticante e pensare ai miei bambini mi rende più forte e più determinata nel combattare contro Daesh” (usa volutamente l’espressione araba, evitando sempre di parlare di Stato islamico, ndr). Non è il primo gruppo femminile a imbracciare le armi, le donne curde hanno fatto da capofila: la differenza è che mentre quest’ultime sono a loro modo avvezze ai combattimenti, per il battaglione attivo nella zona di Hassaké si tratta di una prima assoluta. Ad addestrarle ci sono anche soldati stranieri, la cui nazionalità però non viene menzionata – fonti curde parlano di americani, magari gli stessi attivi a Kobane qualche settimana fa.
L’appoggio alle milizie cristiane nelle zone finite sotto l’egida del Califatto ha diviso (e continua a farlo) le gerarchie ecclesiastiche locali, che da tempo s’interrogano sui rischi che comporta dare il via libera a quei gruppi spontanei armati che nel corso dei mesi sono sorti tra la Siria e l’Iraq. Se il patriarca caldeo di Baghdad, mar Raphaël I Sako, è da sempre ostile a tale possibilità – “è un suicidio, le milizie cristiane diventano un facile bersaglio. Piuttosto i volontari entrino nelle forze armate curde”, ha detto a più riprese – l’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, Youhanna Boutros Moshe lo scorso inverno aveva visitato il campo di addestramento delle unità di protezione della piana di Ninive, impartendo ai combattenti la sua benedizione, incoraggiandoli “ad andare avanti” e ricordando loro che “questa terra era vostra prima ancora di Cristo”. La costituzione delle milizie cristiane, aveva aggiunto il presule, è dimostrazione di “fede e lealtà alla patria”. Tutti elementi per i quali “bisogna essere orgogliosi”.
[**Video_box_2**]Ben più esplicito era stato il patriarca siro-cattolico Ephrem Joseph Younan, in una conversazione con il periodico francese Vie: “Le milizie sono il male minore. Qual è l’alternativa? Si vuole per caso che le nostre comunità siano sgozzate come fossero montoni? Io sto dalla parte di chi vorrà difendersi e morire con l’onore d’aver combattuto il male e difeso gli innocenti”. Le ragazze del battaglione che epicamente si richiama nel nome ai “due fiumi”, il Tigri e l’Eufrate, concordano: “Siamo qui per prevenire un nuovo massacro come quello commesso un secolo fa dagli ottomani, che hanno tentato di sradicare da questa terra la nostra identità cristiana e siriaca”. E per farlo, dice convinta Ormia (18 anni) c’è una sola strada: “Stare in prima linea”.
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