Teologia e Israele, le questioni ancora aperte dopo la visita del Papa in Sinagoga
Roma. “Di positivo c’è che è stato ribadito il passaggio dall’inimicizia all’amicizia, ma le differenze restano tutte”, dice al Foglio Daniele Menozzi, storico della chiesa alla Scuola normale di Pisa e autore del saggio “Giudaica perfidia” (il Mulino) sui difficili rapporti tra cattolicesimo ed ebraismo, commentando la visita del Papa al Tempio maggiore di Roma, avvenuta domenica. “L’amicizia è un atto reale, ormai formalizzato anche dallo scambio di interventi in sinagoga, e anche per questo si deve sottolineare come gli elementi di consenso e accordo prevalgano. E’ un dato – osserva – che non può essere oscurato”. Però “ci sono differenze di toni, accenti e temi che sono emerse con chiarezza nei discorsi del Pontefice e degli esponenti del mondo ebraico”. Due, secondo Menozzi, i punti che ancora non trovano concordi la Santa Sede e la controparte: “Innanzitutto, Bergoglio ha fatto riferimento a uno sviluppo delle relazioni su un piano teologico, cosa che il rabbino capo Riccardo Di Segni ha accuratamente evitato”. Nel suo intervento, infatti, quest’ultimo ha osservato che “non accogliamo il Papa per discutere di teologia. Ogni sistema è autonomo, la fede non è oggetto di scambio e di trattativa politica”. Il rabbino ha “sottolineato solo i punti d’accordo sul piano pratico, come la giustizia, la pace, l’ecologia e il fatto che in nome di Dio non si può fare la guerra. Ma – nota Menozzi – al contempo ha lasciato da parte ogni riferimento alla dottrina ormai del tutto abbandonata della sostituzione – l’idea secondo cui il cristianesimo avrebbe sostituito Israele nel piano di salvezza di Dio come suo popolo eletto – non dicendo se, anzinché a essa, si possa far riferimento a un cammino di salvezza tipico e specifico interno al mondo ebraico.
Il secondo punto di divisione è Israele, sostiene Daniele Menozzi: “Nel discorso di Francesco non c’è stato alcun accenno al tema. Una differenza sostanziale se si pensa all’intervento pronunciato dalla presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, che non solo ha fatto riferimento esplicito a Israele, ma si è spinta a sostenere che una critica allo stato israeliano può essere considerata alla stregua di un atteggiamento antisemita. E’ evidente che la chiesa cattolica non può condividere tale impostazione e lo ha già dimostrato quando ha ribadito, in occasione dell’entrata in vigore degli accordi con lo Stato di Palestina, di essere a favore del riconoscimento di due entità statali in Terra Santa”. Nella logica d’Oltretevere, insomma, “non è neppure presa in considerazione l’idea secondo cui muovere critiche al governo di Gerusalemme possa essere considerato antisemitismo”. Sul punto, va detto che “l’irrigidimento nei confronti della Santa Sede è più che altro una questione che ha a che fare con l’esecutivo israeliano. La realtà delle comunità ebraiche è più variegata. Come è vero che vi sono posizioni più appiattite sulla linea governativa, è altrettanto assodato che è presente una posizione (minoritaria) che ritiene necessario cambiare atteggiamento per poter risolvere la situazione di stallo che si è venuta a creare”.
[**Video_box_2**]Non sono sfuggite agli osservatori le puntualizzazioni che il rabbino Di Segni ha fatto riguardo al trattamento non certo benevolo che la chiesa ha attuato nei confronti degli ebrei prima del Vaticano II. Nulla di nuovo, a parere di Menozzi: “La posizione ebraica ritiene che ci debba essere un’esplicita autocritica da parte cattolica rispetto a quanto accaduto nel passato. Il Papa, in questo senso, ha compiuto due gesti che meritano una sottolineatura. Per prima cosa, ha deplorato la Shoah, riconoscendo che l’antisemitismo non è un capitolo chiuso. L’omaggio a Stefano Gaj Taché, il bimbo ucciso nel 1982, indica un collegamento ideale tra l’antisemitismo che ha portato all’annientamento degli ebrei in Europa e l’antisemitismo che continua a serpeggiare nel mondo. L’altra concessione fatta da Francesco è stata la rievocazione di una partecipazione simpatetica, a Buenos Aires, alle cerimonie ebraiche”. Ma vi è un altro punto, poco segnalato, che a parere del nostro interlocutore è invece rilevante: “Mentre Giovanni Paolo II rinvendicò il ruolo positivo e caritatevole svolto dai cristiani durante la persecuzione, Francesco non ha detto nulla. Solo silenzio. Penso che ciò indichi la volontà di non creare tensioni, occasioni di polemica. Preferisce lasciare agli studiosi il compito di approfondire e dare risposte sul ruolo dei cattolici in quegli anni”.
Il cristianesimo non è utopia