Unioni civili, “dopo il momento della preghiera, quello della piazza”, dice il vescovo di Trieste
Roma. “Se il disegno di legge sulle unioni civili fosse approvato così com’è, le conseguenze sarebbero enormi. Si aprirebbe una porta su una sperimentazione allargata dalle conseguenze tragiche”. Giampaolo Crepaldi, vescovo di Trieste, già segretario del Pontificio consiglio Giustizia e pace e ancor prima direttore dell’Ufficio della Cei per i problemi sociali e il lavoro, commenta con il Foglio quanto sta accadendo tra l’aula del Senato e il Circo Massimo, dove – per l’enorme afflusso di gente atteso – s’è deciso di trasferire la manifestazione pro-famiglia del 30 gennaio. “E’ bene dire le cose come stanno”, osserva il presule: “Muterà sostanzialmente il concetto di famiglia, dovranno cambiare tutte le politiche – da quelle fiscali a quelle tariffarie a quelle della casa – perché il ddl Cirinnà equipara in tutto le unioni civili e il matrimonio tra un uomo e una donna, nella scuola dovranno essere dati insegnamenti nuovi in materia non solo di famiglia, ma anche di sessualità e di questioni di genere. L’approvazione del Cirinnà rappresenterebbe un precedente importante per l’approvazione dei disegni di legge Scalfarotto e Fedeli” (il primo punisce l’omofobia e la transfobia, il secondo prevede l’educazione di genere obbligatoria nelle scuole, ndr). “La nostra cultura e la nostra società non saranno più quelle di prima”, prosegue il vescovo di Trieste. “Purtroppo, secondo me, saranno di gran lunga peggiori”.
Il punto centrale è l’articolo 5 del provvedimento al vaglio di Palazzo Madama, che contempla la stepchild adoption. “Insigni giuristi hanno messo in evidenza che non esiste un diritto della coppia ad adottare un bambino – come l’ammissione della stepchild adoption nel ddl Cirinnà lascia intendere. Esiste piuttosto il diritto del bambino a essere adottato non da una coppia qualsiasi, però, ma da una coppia che ne dia degna accoglienza e garantisca la sua armonica maturazione”. Ma vi è un’altra precisazione che mons. Crepaldi tiene a fare: “Si dice che il ddl Cirinnà non ammette l’adozione, a parte il caso suddetto della ‘adozione del figliastro’, ma così non è propriamente, dato che ammette l’adozione internazionale. Tutto questo ci dice che il grande assente nel dibattito è il minore. Attenzione però al possibile trabocchetto: se si cancellasse dalla legge la stepchild adoption, il disegno di legge sarebbe ugualmente inaccettabile”.
Il mantra secondo cui le unioni civili vanno regolamentate perché tanto in Europa è dappertutto così non convince il nostro interlocutore: “Questo modo di ragionare sarà forse diffuso tra le persone che seguono la cronaca senza approfondire, e negli addetti ai lavori, in coloro che pensano che ‘nuovo’ sia anche sinonimo di ‘migliore’. Maritain diceva che oggi siamo malati di ‘cronolatria’, ci inginocchiamo davanti al nuovo in quanto nuovo. Le persone che, invece, vogliono responsabilmente valutare – sostiene Crepaldi – non hanno la preoccupazione di essere considerate retrograde, ma guardano le cose così come esse sono: il matrimonio, la famiglia, il bene dei figli hanno un valore permanente, pur nel cambiamento di modalità di vita e di stili sociali”. Eppure, anche tra i ranghi dell’episcopato non tutti sembrano marciare nella stessa direzione, come accadde nella battaglia contro i Dico: “Sono del parere che la Nota dei vescovi italiani del 2007 fosse un documento ben equilibrato, ben argomentato e propositivo, che esprimeva la sapienza della chiesa per il bene delle persone e delle famiglie. Quelle indicazioni che, a proposito di leggi di questo tipo, dicevano di non andare oltre il riconoscimento di diritti individuali (individuali, non di coppia) sono valide ancora oggi”, osserva il vescovo. Di certo, la situazione appare fluida anche nella Cei, dove vi sono presuli pronti a scendere in piazza e altri convinti che il compito del pastore non sia quello di protestare contro ciò che decide il Parlamento.
Mons. Crepaldi, che è fondatore e presidente dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla dottrina sociale della chiesa, dice di non poter parlare in nome dei confratelli: “Credo che molto dipenda dal punto di vista da cui si parte. Se, per esempio, si fa prevalere l’ottica pastorale, si può essere tentati di mettere in primo piano la possibilità dell’incontro con tutti e, quindi, si può pensare che una legge chiara nei contenuti possa rappresentare un ostacolo. Oppure – aggiunge – si può pensare che la fede cristiana non debba mai pronunciarsi su una legge (qualsiasi essa sia) perché in questo caso si trasformerebbe in ideologia, essendo una legge sempre politicamente orientata. Io comprendo queste possibili valutazioni, ma ritengo che dobbiamo sforzarci di valutare la questione nel suo complesso in continuità con quanto la chiesa ha sempre insegnato”. E comunque, precisa, “i vescovi non scendono in piazza. Anche nel 2007 e il 20 giugno scorso a farlo sono stati i laici. E’ pur vero che alcuni vescovi sembrano contrari a manifestazioni di questo tipo, ma il motivo è pastorale: si ritiene che la fede cristiana non dovrebbe alimentare contrapposizioni, conflitti, prove di forza, ma dovrebbe animare il dialogo. Senza nulla togliere alla validità di queste preoccupazioni, ritengo che le forme di presenza dei cattolici nella società possano essere varie”.
[**Video_box_2**]Insomma, sottolinea il capo della diocesi triestina, “c’è il momento della preghiera, del dialogo, del convegno di approfondimento e anche della presenza in piazza. Quando scende in piazza, il cristiano non lo fa in odio a qualcuno, ma per esercitare il proprio dovere di cittadino responsabile”. Inevitabile che il discorso cada sul tema dei princìpi non negoziabili. “Su questo argomento – dice Crepaldi – ho pubblicato di recente un libro. Qui posso limitarmi solo a una breve battuta. I princìpi non negoziabili non sono solo dei valori ma dei princìpi, ossia delle luci che illuminano non solo i temi a essi strettamente connessi (vita, famiglia, libertà di educazione) ma anche tutti gli altri ambiti della vita sociale e delle politiche. Che non siano negoziabili non significa che non se ne possa discutere, ma significa che non possono essere oggetto di trattativa. Sono i fondamenti della nostra convivenza. Non possiamo trattare sul ramo su cui siamo seduti”.