Papa Francesco in raccoglimento nella Moschea blu di Istanbul, nel novembre del 2014

Tornare a Ratisbona

Matteo Matzuzzi
Verso l'incontro tra Francesco e il Grand imam di al Azhar, invitato ufficialmente in Vaticano con una lettera del cardinale Jean-Louis Tauran. La rottura delle relazion, nel 2011, "fu un atto unilaterale deciso da al Azhar, la maggiore istituzione sunnita del mondo arabo", dice al Foglio l'islamologo gesuita Samir Khalil Samir.

    Non ha la portata del gesto storico, l’invito che il cardinale Jean-Louis Tauran, tramite il segretario del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e il nunzio in Egitto, ha rivolto al Grand Imam di al Azhar, Ahmed al Tayyeb, affinché si rechi a Roma a incontrare il Papa. “Ma l’iniziativa non può essere neppure definita un semplice piccolo passo”, spiega al Foglio il padre gesuita Samir Khalil Samir, islamologo di fama, docente al Pontificio istituto orientale di Roma e già consigliere di Benedetto XVI. “C’è stata un silenzio di quasi cinque anni a seguito della rottura decisa unilateralmente dall’università di al Azhar, un fatto diplomaticamente inammissibile”, dice, lasciando intendere – lui che è nato al Cairo – che forse anche ai vertici della grande istituzione sunnita egiziana si sono pentiti del gesto tranchant: “Penso che avrebbero voluto riannodare i fili delle relazioni con Roma, ma poi non hanno fatto nulla, probabilmente per non sentirsi umiliati. D’altronde, nel suo discorso al Corpo diplomatico del gennaio 2011, Benedetto XVI detto semplicemente che dopo l’attentato alla chiesa copta di Alessandria di inizio anno, con decine di morti, sarebbe stato necessario aiutare i cristiani d’oriente. Dal Papa oggi emerito non una parola in più. Eppure, al Azhar ha preso questa frase come preteso per rompere i rapporti, senza dare alcun avviso, cosa che sarebbe stata preferibile, considerate le buone relazioni esistenti tra il dicastero guidato dal cardinale Tauran e l’università cairota. Io – dice padre Samir – conosco personalmente il motivo dell’irrigidimento. Fu l’allora consigliere del rettore, Mahmoud Azab (oggi scomparso), a sostenere la necessità di chiudere ogni porta con il Vaticano. Azab era una persona formidabile e molto aperta, tant’è che insegnava a Parigi, all’Istituto di lingue orientali. Ma era anche un uomo dal carattere molto impetuoso. Quella rottura fu un errore. La verità è che i musulmani non avevano mandato giù la questione di Ratisbona, con il discorso del Papa risalente al settembre 2006. Personalmente, in più di venti articoli, anche su riviste islamiche, ho spiegato che la frase contestata pronunciata da Benedetto XVI era una citazione di un frase dell’Imperatore bizantino Manuele II Paleologo, in cui si diceva che Maometto ha diffuso la sua fede con la spada. E Ratzinger chiariva che ‘la violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima’. Non si può mai mescolare violenza e fede, né usare la violenza per sostenere la fede. Lo scopo del Pontefice era di ricordare l’alleanza indispensabile tra ragione e fede. Purtroppo, i musulmani hanno confermato di non aver capito quel messaggio, dal momento che per settimane, ovunque nel mondo, si sono dati alla violenza per protestare contro il suo discorso”.

     

    Il problema, insomma, rimane, e oggi lo vediamo con il dilagare delle milizie califfali che si rifanno allo Stato islamico: “La violenza è usata in nome della religione. Non abbiamo mai visto nell’islam o in altre religioni la violenza che stiamo vedendo in questi mesi. Ecco perché bisogna partire dal principio enunciato da Benedetto XVI, secondo cui non si può mai usare la violenza per difendere la fede. E’ per questo che il jihad, inteso come ‘guerra sulla via di Dio’, è inaccettabile”, aggiunge il nostro interlocutore.

     

    A ogni modo, “è meglio metterci una pietra sopra. Per questo è molto bello che il Papa – che non ha avuto nulla a che fare con l’incidente del 2011 – ora mandi non solo un messaggio, ma anche due messaggeri ad al Azhar. Ogni cosa è stata ben studiata e organizzata per ricreare una relazione amichevole, che darà i suoi frutti quando l’occasione lo consentirà”. Nessun dubbio, dunque, sul fatto che si tratti di “un passo positivo, una cosa che se da una parte non fa rumore e non crea chiasso, dall’altra non può passare inosservata, senza conseguenze. E’ una cosa giusta per creare distensione, ed è importante che avvenga con al Azahr, che è l’istituzione accademica più autorevole nel mondo sunnita (che coinvolge l’85 per cento dei musulmani). E’ dunque normale che vi siano relazioni regolari e positive”.
    In occidente si plaude al disgelo, segnalando i benefici che una rinnovata “alleanza” con la massima istituzione sunnita potrà dare anche nell’ottica della lotta all’espansione dello Stato islamico: “Al Azhar ha condannato Daesh più volte, sottolineando che ciò che i suoi adepti fanno non rappresenta l’islam autentico”, nota il nostro interlocutore, che aggiunge: “L’Egitto, e quindi anche al Azhar, si oppone al Daesh. Su questo il presidente Abdel Fattah al Sisi è stato molto chiaro. Rimane però il fatto che la causa del cosiddetto califfato nasce da un’ideologia prettamente islamica. Non è nata come semplice terrorismo”. Alla base c’è la constatazione che “l’islam è in grande crisi; fatto riconosciuto in primo luogo dagli stessi musulmani. Da secoli non produce nulla di costruttivo nella letteratura, nelle arti, nella scienza e nella tecnologia. Resta in gran parte sottosviluppato e – va detto – quasi dappertutto dove ci sono musulmani ci sono problemi irrisolti. E’ una crisi nata con l’abolizione del califfato islamico da parte del presidente turco Kemal Atatürk, il 3 marzo 1924. La risposta è stata la nascita, al Cairo, dei Fratelli musulmani e la costituzione del Regno dell’Arabia Saudita, immersa nell’ideologia super fondamentalista del wahaabismo. Per ultimi sono apparsi i salafiti, che cercano d’imitare il comportamento dei primi compagni di Maometto”.

     

    Tutte queste ideologie fondamentaliste – sostiene Samir – sostenute a partire dagli anni 1970 dai soldi del petrolio dell’Arabia, che finanza migliaia di moschee con imam pagati da loro, cambiano l’immagine dell’islam. Fanno propaganda radicale in tutto il mondo, anche in Europa. Ma il detto ‘chi paga, comanda’ è più vero che mai, e quindi fanno passare la loro visione dell’islam, che è radicale ed estremista”. L’epoca in cui siamo immersi, dice il gesuita egiziano, “è contraddistinta da un fondamentalismo sempre radicale, che ha dato origine prima al salafismo e ora al terrorismo. Una stagione in cui si pretende di realizzare l’ideale secondo cui tutti i musulmani dovrebbero impegnarsi a ricreare l’islam di un tempo, militarmente e in un modo che potremmo definire ‘selvaggio’. Ma i musulmani questo aspetto ‘selvaggio’ non lo vogliono neppure considerare”. C’è poi un’altra questione, più delicata, che ha a che fare proprio con al Azhar, che “si difende e ribadisce come Daesh non faccia parte dell’islam. Eppure, i miliziani dello Stato islamico si appoggiano a tanti insegnamenti che provengono anche da al Azhar, al punto che molti tra gli imam di quell’università dicono che il “pericolo è nell’insegnamento che noi diamo”. Si potrebbe dire, dunque, che “al Azhar non sa ancora come dispiegare questa sua responsabilità, evidenziata anche dal presidente al Sissi, nello storico e importante discorso tenuto nel dicembre del 2014 in quell’università. Disse che l’islam avrebbe dovuto ripensare se stesso. Mi sembra – nota padre Samir – che oggi il rettore di al Azhar, uomo che conosce profondamente la cultura occidentale, sia un po’ paralizzato. Ritengo, a ogni modo, che un rapporto positivo tra la chiesa cattolica e questa grande istituzione sunnita potrebbe (avviando una riflessione teologica da entrambe le parti) portare a pensare qualcosa di moderno ma, essenzialmente, di ‘credente’”. Una questione che resta aperta, però, è relativa al fatto che “i musulmani hanno paura del confronto dell’islam con la modernità, vista come frutto del paganesimo (e dunque non solo laicamente intesa). Di conseguenza, rigettano tutto in blocco, anche se in principio lo fanno come rifiuto della secolarizzazione. Respingono anche ciò che è giusto.
    Tra le richieste avanzate già cinque anni fa da al Azhar per riallacciare le relazioni vi era quella di una sorta di pentimento pubblico da parte del Pontefice per le crociate. Per il nostro interlocutore, pensare a un atto del genere era e rimane “un’assurdità”.

     

    [**Video_box_2**]“Non c’è niente da scusarsi, perché Benedetto XVI non ha mai detto nulla né contro l’Egitto né contro l’islam. Ha solo chiesto l’aiuto di altri paesi, e questo non mi pare sia una vergogna. Soprattutto perché tale richiesta era conseguente a un atto di terrorismo. In secondo luogo, non ha senso scusarsi per fatti accaduti mille o novecento anni fa, perché altrimenti la stessa richiesta (anacronistica) dovrebbe essere rivolta ai musulmani e a tutti i popoli del mondo. Nel contesto storico dell’epoca, le crociate erano una risposta alla distruzione di decine di chiese, ordinata dal califfo Fatimida d’Egitto attorno al 1030, con lo scopo di distruggere il Santo Sepolcro e tutte le chiese importanti di Siria e Palestina. Gli storici musulmani scrivono che sono state parzialmente o totalmente distrutti ben ottanta edifici di culto. Le crociate, quindi, sono state una risposta all’attacco, e non un attacco iniziato per caso. Era un atto difensivo. Questo i musulmani fanno finta di non conoscerlo”.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.