Carico da novanta di Douthat sul Nyt: il Papa e Trump sono uguali
Roma. Il fatto è che Papa Francesco e Donald Trump sono più o meno uguali, e cioè due populisti che se le sono date di santa ragione. Ross Douthat, columnist cattolico del New York Times, si mostra annoiato dal dibattito circa l’analisi (virgole comprese) della risposta data dal Pontefice in aereo su quanto è (o non è) cristiano Donald Trump. Ancor meno gli interessano le precisazioni del giorno dopo fornite dal Vaticano – così come la retromarcia del candidato del Grand Old Party, che ha definito il Papa “a wonderful guy”, un fantastico ragazzo – volte a precisare che Bergoglio mai ha nominato il front runner delle primarie repubblicane e che il suo discorso era più ampio, visto che il vescovo di Roma a tutto pensa meno che a immischiarsi – oltre che nelle beghe italiane relative a disegni di legge sulle unioni civili e raduni di famiglie al Circo Massimo – nella routine elettrizzante dei caucus americani. Nessuno dice, spiega Douthat a mo’ di provocazione, quanto i due si assomiglino.
Certo, i contrasti ci sono: “Il celibe e il libertino, l’asceta e il miliardario, il mistico e il materialista”. Ma è “affascinante” ciò che li unisce. A dirlo per primo, sul Washington Post – non proprio l’house organ del Trump pensiero – era stato Matthew Schmitz. Aveva definito entrambi come “outsider impegnati a scuotere i propri establishment”. Quando il miliardario newyorchese attacca le élite repubblicane e rompe con l’ortodossia di partito su economia e politica estera, scrive Schmitz, “rispecchia il modo in cui il Papa sfida la burocrazia vaticana”. Entrambi i messaggi, sintetizza Douthat, fanno appello alla medesima idiosincrasia per le istituzioni, lo stesso desiderio di “fare casino” e iniziare qualcosa di nuovo. Il nemico, poi è lo stesso, individuato nella “classe dirigente occidentale”. La tesi del columnist del Nyt è chiara: per raggiungere chi non è in sintonia con preti e politici, si ammicca alla galassia populista, in costante espansione nel momento storico in cui siamo immersi. Lo fa il “nazionalista Trump parlando per conto dell’infelice classe operaia occidentale” e lo fa Francesco, “un latinoamericano” che abbraccia la causa “dello sviluppo” degli strati poveri della popolazione mondiale. E in questo i due leader sono simili, a differire semmai sono “gli insulti” usati: quelli di Trump sono arcinoti, il Papa è più fine “e preferisce dare del fariseo e del neopelagiano”, scrive Douthat, che da tempo a Bergoglio non risparmia critiche relativamente all’agenda imbastita per il pontificato e il modo con cui si dispiega l’opera di rievangelizzazione perseguita, così in contrasto – sostiene l’opinionista del Nyt – con chi l’ha preceduto sul Soglio di Pietro.
[**Video_box_2**]Tutto ruota attorno alla questione su quanto il Pontefice, vescovo di Roma e vicario di Cristo (per chi crede) debba coinvolgersi in politica. Il vaticanista del Boston Globe, John Allen, ha scritto che sarebbe ipocrita anche solo pensare che il Papa debba essere una figura super partes, una sorta di notaio che si limita a lanciare appelli. Non è questione d’opportunità politica, semmai – aggiungeva Allen – di come si legge il Vangelo: “E’ vero che Gesù ha detto ‘Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che Dio’, ma ha anche ricordato che saremo giudicati per come trattiamo i nostri simili, e questa è una dimensione chiaramente politica”. Quanto al relativizzare la questione, scandalizzandosi per quella che diversi osservatori hanno bollato come “ingerenza” in affari d’uno stato sovrano, il discorso è senza senso: “Per la cronaca – ricorda il vaticanista su Crux – i papi hanno predicato la dignità umana dei migranti di tutto il mondo molto prima che Trump irrompesse sulla scena politica americana, e sostenere che ogni volta che lo farà da qui in avanti avrà in mente ‘The Donald’ è una cosa semplicemente stupida”.
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