Aspettando l'abbraccio con il Vaticano, in Cina si demoliscono le croci
Roma. Anche la croce che svettava sul tetto della chiesa di Zhuangyan, a Wenzhou (Cina orientale) è stata abbattuta, due giorni fa. L’ordine è giunto dalle autorità della vasta provincia del Zhejiang, che in un anno e mezzo hanno disposto la demolizione di circa millesettecento simboli cristiani, considerati “vistosi”. La conferma è stata data dall’agenzia Ucan, come scrive AsiaNews, il portale del Pontificio istituto missioni estere. Di croci “ce ne sono troppe”, aveva detto il segretario del Partito comunista di Wenzhou, preoccupato dallo skyline cittadino, a suo dire “deturpato”. Da qui la promulgazione di una serie di leggi e regolamenti che fissava le misure e i colori delle croci, chiarendo che mai avrebbero dovuto svettare in cima ai campanili. Contemporaneamente, Pechino avviava la registrazione di tutti i religiosi che operano sul proprio territorio nazionale, una sorta di schedatura che oltre ai buddisti (per i quali era stata inizialmente pensata) si applica anche ai cristiani.
E’ la conferma dell’ambiguità della Cina comunista, che se da una parte si siede al tavolo negoziale con la Santa Sede dimostrandosi pronta a riallacciare con tutti i crismi dell’ufficialità le relazioni interrotte da più di sessant’anni (con lo scambio degli ambasciatori e il raggiungimento di un compromesso sulla procedura di nomina dei vescovi), dall’altra non attenua la persecuzione in guanti bianchi attuata sui cristiani. Un doppio binario che consente le celebrazioni per il Giubileo della misericordia, con l’apertura della Porta santa in quasi tutte le cattedrali del paese, e allo stesso tempo ordina la rimozione delle croci da quelle stesse cattedrali. La diplomazia vaticana lavora a fari spenti, consapevole di quanto la situazione, delicata e contorta, possa sfuggire di mano in qualsiasi momento. Anche per questo Francesco, nella sua recente intervista concessa a Francesco Sisci per Asia Times, ha evitato accuratamente di affrontare tutti i nodi del contendere, mine ben cariche poste sulla strada della riconciliazione. Il Papa – che non ha mai nascosto il desiderio di recarsi in Cina – è stato prudente, perfino troppo secondo parte dell’attiva comunità cattolica di Hong Kong che ha nell’arcivescovo emerito, il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, il proprio punto di riferimento. Questi, a differenza del più moderato successore, il cardinale John Tong Hon, da sempre si oppone a ogni accordo con il governo di Pechino che abbia più le sembianze di un appeasement che di una intesa tra pari.
[**Video_box_2**]“In occidente molte persone tendono a vedere il conflitto tra la chiesa e la Cina come un conflitto di tipo culturale, una sorta di ‘scontro di civiltà’. Quindi, per allentare la tensione, si deve entrare in un genuino dialogo inter-culturale. E questa è ovviamente anche la linea scelta dal Papa”, ha scritto di recente John Mok Chit Wai, della Chinese University of Hong Kong. “Sfortunatamente – proseguiva – vedendo la questione da questo punto di vista, il Papa sembra non considerare che il nucleo del conflitto oggi non è fatto di incomprensioni culturali, e non si basa neanche sulla paura cinese dell’imperialismo culturale. Si tratta di un conflitto politico, che si basa sull’incompatibilità di fatto fra un dominio totalitarista e la libertà religiosa”.
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