L'Osservatore Romano esalta il film che mostrifica e silenzia la chiesa

Benedetto Moretti
Il quotidiano della Santa Sede loda il film premiato con l'Oscar, “Il caso Spotlight”, che dipinge la chiesa come una sorta di cupola mafiosa dove i suoi cardinali sembrano più dei padrini che dei pastori. “Silenzio sull’opera di Ratzinger? Non si può dire tutto”.

Roma. Il meaculpismo velato dalle ormai abituali punte di masochismo spinto – in pieno stile da raduno interreligioso di Assisi con lampade e lanterne – in Vaticano va di moda da tempo, prima con i pentimenti collettivi per tutto ciò che la chiesa ha fatto o avrebbe fatto nei secoli (mancano le crociate, ma chissà che nel prossimo incontro tra il Papa e il Grand imam di al Azhar non si discuta in proposito), ora con l’entusiasta plauso al film da Oscar “Il caso Spotlight”, che dipinge la chiesa come una sorta di cupola mafiosa dove i suoi cardinali (Bernard Law nello specifico, il cui indirizzo di casa è stato pubblicato su Repubblica, con la notazione indispensabile sul fatto che il porporato ultraottantenne “non risponde mai al telefono”) sembrano più dei padrini che dei pastori – ma si sa, storici savonaroleschi alla Alberto Melloni hanno già cominciato ad affibbiare patenti di “degnità” ai vescovi, esaltando gli umili e rovesciando i potenti, come sta scritto nel “Magnificat”.

 

L’Osservatore Romano, organo ufficiale della Santa Sede e attentissimo da sempre nella non semplice opera di interpretare (o quantomeno di tentare di farlo) umori e pensieri dei vertici supremi, pare commosso della duplice statuetta assegnata alla pellicola che ripercorre lo scoop del Boston Globe che fece a pezzi la Santa romana chiesa della città vittoriana del Massachusetts, un quindicennio fa. Perfino la storica Lucetta Scaraffia, smaltita la rabbia per non aver potuto dire tutto quello che voleva al Sinodo, editorialeggia spandendo grani di incenso sul film, che “ha una trama avvincente”, che “non è anticattolico come anche è stato scritto” (non dall’Osservatore Romano, sia mai), ma è stupendo perché “riesce a dare voce allo sgomento e al dolore profondo dei fedeli davanti alla scoperta di queste orribili realtà”. Cosa su cui tutti gli esseri umani dotati di senno e decenza condividono.

 

Il problema è che in “The Spotlight” non v’è traccia di quel che la chiesa ha fatto (o tentato di fare) per punire gli abusi e i crimini e – questo è l’aspetto più surreale – Scaraffia lo ammette, en passant: “Certo, nel racconto non viene dato spazio alla lotta lunga e tenace che Joseph Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e come Papa, ha intrapreso contro la pedofilia nella chiesa. Ma in un film non si può dire tutto”. Come se la parte totalmente ignorata fosse un cammeo, una appendice di trascurabile rilievo. Ma questo è il leit-motiv che va per la maggiore oltretevere, con il padre gesuita Hans Zollner – membro della Commissione pontificia per la tutela dei minori, un organismo che negli ultimi tempi si è spesso contraddistinto per la foga giustizialista di alcuni suoi membri più o meno autorevoli – che sottolinea come tanti vescovi raccomandino ai confratelli di accomodarsi in poltrona a guardare il film, che è “un forte invito a riflettere e a prendere sul serio il messaggio centrale, cioè che la chiesa cattolica può e deve essere trasparente, giusta e impegnata nella lotta contro gli abusi e che deve impegnarsi affinché non si verifichino più. E’ importante capire che dobbiamo cambiare quel nostro atteggiamento che in italiano si può esprimere con quella famosa parola: ‘omertà’”.

 

[**Video_box_2**]Tira aria di  giacobinismo, con la forca sventolata perfino da autorevoli penne della vaticanistica anche davanti al rugbysta australiano George Pell, prefetto della Segeteria per l’Economia, che da un paio di giorni fa le ore piccole collegato da un hotel romano con la Commisssone d’inchiesta australiana che lavora sugli abusi sessuali da parte del clero su minori negli anni Settanta e Ottanta. L’hanno fatto giurare sulla Bibbia, lui ha detto che la chiesa ha gravi responsabilità, ma che queste sono dei suoi membri singolarmente presi e non dell’istituzione stessa. Non basta, la sentenza di condanna è già stata emessa, se non da un organismo giudiziario australiano, dal Giornalista collettivo pronto a resuscitare Mastro Titta in nome di un falso quanto pietoso moralismo.

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