Quello che i giornaloni non vi dicono sul genocidio dei cristiani
Nell’ultimo giorno utile concessogli dal Congresso, il segretario di stato americano John Kerry ha dichiarato che quello in corso nel vicino oriente, tra Siria e Iraq, “è un genocidio” che ha come vittime le minoranze religiose, e cioè yazidi, cristiani e sciiti. Kerry ha definito le azioni dei miliziani jihadisti “crimini contro l’umanità”. Con una mossa inattesa, il segretario di stato ha così sconfessato platealmente il proprio portavoce John Kirby, che lunedì sera – appena reso noto il voto unanime (393 sì, nessun no) dato dalla Camera dei rappresentanti alla risoluzione che parlava di “genocidio” – diceva alla stampa che il verdetto non era vincolante e che difficilmente l’Amministrazione si sarebbe conformata a quanto deciso a Capitol Hill. Invece, Kerry ha sposato appieno la risoluzione promossa dal repubblicano Jeff Fortenberry, arrivando anche a ipotizzare operazioni sul terreno per tutelare le minoranze minacciate. Ora la pressione è tutta sulla Casa Bianca, dove Obama tace mentre il suo portavoce, Josh Earnest, solo due settimane fa escludeva che ci fossero i presupposti legali per parlare di genocidio.
Earnest basava le proprie considerazioni sul rapporto della missione effettuata nella piana di Ninive dallo U.S. Holocaust memorial museum. Dall’indagine, risalente all’agosto 2014, emergeva che “sotto l’ideologia dello Stato islamico, gli aderenti a religioni considerate infedeli o apostate – inclusi gli yazidi – sono costretti alla conversione o uccisi, e i membri di altre religioni – come i cristiani – sono soggetti a espulsione, estorsione o alla conversione forzata”. Non veniva considerato, quindi, un successivo dossier del Comitato per i diritti umani dell’Onu, secondo il quale “gli atti di violenza perpetrati contro i civili a causa della loro affiliazione (o presunta affiliazione) a un gruppo etnico o religioso possono essere considerati un genocidio”.
Le argomentazioni della Casa Bianca avevano indotto i professori della Princeton University, Robert P. George e Cornel West, a intervenire: "In nome della decenza, dell'umanità e della verità, chiediamo al presidente Obama, al segretario di Stato John Kerry e a tutti i membri del Senato e della Camera dei rappresentanti di riconoscere e di dire pubblicamente che i cristiani in Iraq e Siria – insieme a yazidi, turcomanni, shabak e musulmani sciiti – sono vittime di una campagna di genocidio". Ancora a metà dicembre, l'Amministrazione sembrava decisa a non riconoscere i cristiani vittime di un genocidio perpetrato dalle squadre jihadiste di Abu Bakr al Baghdadi . Dopotutto, la realtà è quella di un'America che archivia l'esportazione della libertà religiosa e preferisce tingersi d'arcobaleno.
Fondamentale per la decisione del Dipartimento di stato è stata la risoluzione approvata (393 sì, 0 no) lo scorso lunedì dalla Camera dei Rappresentanti di Washington, che ha definito "genocidio" quanto accade nel vicino oriente per mano dei miliziani dell'Isis.
Durante l'Angelus di Santo Stefano, lo scorso 26 dicembre, anche il Papa era intervenuto sulla questione, ricordando "coloro – e sono purtroppo tantissimi – che come santo Stefano subiscono persecuzioni in nome della fede, i nostri tanti martiri di oggi". Sempre a cavallo del Natale, Francesco invitava alla preghiera "per i cristiani che sono perseguitati, spesso nel silenzio vergognoso di tanti".
Pure l'Economist, nell'inchiesta pubblicata il 2 gennaio scorso, certificava il progressivo svuotamento di cristiani dalle terre passate sotto il controllo del cosiddetto Stato islamico.
I segnali, dopotutto, erano ben evidenti già mesi fa, come il Foglio raccontò nello speciale dello scorso 21 novembre. Fare stime è difficile, i numeri ballano e i censimenti non sono sempre possibili, data la situazione sul terreno sconvolto da anni di guerre e tensioni etniche e religiose. Quel che si può dire, è che rispetto a un paio d’anni fa il numero di paesi dove la persecuzione nei confronti dei cristiani è considerata estrema (cioè a livello massimo) è passato da sei a dieci, ha scritto di recente in un rapporto la Fondazione di diritto pontificio Aiuto alla chiesa che soffre. Il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, scriveva che "la solidarietà per i perseguitati è un dovere che non deve conoscere barriere, astuzie e riserve politiche", mentre il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, osservava che "il fondamentalismo e il radicalismo di matrice islamista, esplosi di recente e alimentati all’interno di vaste regioni dell’Africa e del medioriente, hanno tragicamente accresciuto le dimensioni di questa vera e propria emergenza planetaria. E spicca, tra tutti, il dato numerico che riguarda le comunità cristiane, in termini assoluti le più perseguitate e con il maggior numero di vittime".
Le testimonianze dai territori controllati dallo Stato islamico sono univoche. Il parroco della cattedrale latina di Aleppo, padre Ibrahim Alsabagh, ripercorreva i momenti seguiti all'attentato che lo scorso ottobre colpì la chiesa durante una celebrazione eucaristica: "Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto. L’esplosione è avvenuta proprio nell’ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45”.. Eppure, nonostante la tragedia, la fede si rafforza. Ne è un esempio la comunità cristiana di Aleppo e ne è un esempio Myriam, bambina di poco più di dieci anni rifugiatasi con la famiglia a Erbil dopo la fuga dalla sua città d'origine, Qaraqosh, in Iraq. Da lei nessuna parola d'odio nei confronti dei jihadisti: “Non voglio far loro niente, chiedo solo a Dio di perdonarli”. “E anche tu puoi perdonarli?”. “Sì”. “Ma è difficile perdonare chi ci ha fatto soffrire”. “Io non voglio ucciderli, perché dovrei? Certe volte piango perché abbiamo lasciato la nostra casa, ma non sono arrabbiata con Dio, lo ringrazio perché si occupa di noi”.
Situazione che ha progressivamente portato le massime autorità della gerarchia episcopale mediorientale a chiedere l'intervento di truppe (non solo arabe, ma anche occidentali) per fermare la minaccia jihadista. I boots on the ground come soluzione "inevitabile", aveva detto il patriarca di Babilonia dei caldei, mar Louis Raphaël I Sako: "L'Isis sarebbe sconfitto facilmente, se solo la comunità internazionale si mettesse d’accordo”. Padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, usava parole chiare: "I leader islamici sono stati timidi nel denunciare l'abominio che è in corso".
In un'intervista al Foglio, il Patriarca di Antiochia dei siri, Ignace Youssif III Younan, si poneva sulla linea di Sako: “I raid non bastano, bisogna essere realisti. I bombardamenti aerei non sono sufficienti, perché questi terroristi sanno come nascondersi tra i civili. E’ necessario coordinare i raid con gli eserciti nazionali, come stanno facendo gli americani in Iraq e i russi in Siria”.
Ma perché i cristiani sono la carne da macello prediletta? La risposta l'ha data il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, Béchara Boutros Raï: "Nell’inconscio dei musulmani il giudaismo è stato completato e soppiantato dal cristianesimo e questo è stato completato e soppiantato dall’islam. Perciò il cristiano non è accettato come cristiano, è semplicemente un uomo che deve diventare musulmano e ancora non l’ha fatto”.
Anche per questo, come ha scritto l'islamologo egiziano Samir Khalil Samir, vi è la necessità di rivoluzionare il pensiero islamico contemporaneo: "E’ una menzogna dire che l’Isis non c’entra niente con l’islam. Io posso capire chi dice così, perché intende dire che non si riconosce in quell’atteggiamento. Questo è vero, molti musulmani sostengono che quello non è il vero islam, che invece dovrebbe essere pacifico. Però, quando lo sento dire da qualche imam, la cosa diventa grave. Ciò che fa il cosiddetto Stato islamico, infatti, è sempre appoggiato in modo chiaro da un un giurista musulmano che afferma come il determinato atto sia conforme a un precetto dell’islam".