La breccia in Amoris laetitia che fa sognare la revolución sulla famiglia
Roma. Che l’esortazione post sinodale firmata dal Papa, Amoris laetitia, avrebbe diviso il campo cattolico come si trattasse del clásico spagnolo, era scontato. Due anni di dibattito acceso, colpi bassi tra cardinali, offese reciproche e delibere assembleari decise per uno o due voti, non potevano che consegnare tale esito. Che vi sarebbe stata un’apertura era altrettanto certo, visto che Francesco non per nulla ha convocato due sinodi a distanza di un anno l’uno dall’altro. Prevedibile era pure la sfida all’interpretazione dell’enciclopedico testo (256 pagine, 325 paragrafi), quasi si trattasse dell’oracolo della pizia di Delfi, la cui decodificazione spettava a sacerdoti per nulla disinteressati al corso degli eventi nella storia. Robert Royal, autorevole commentatore statunitense, ha meglio d’ogni altro riassunto la questione: Amoris laetitia è in realtà un insieme di due testi. Sul primo, che raggruppa i primi sette capitoli e l’ultimo, tutti sono d’accordo: c’è la condanna del gender, dell’eutanasia, la riaffermazione della famiglia come istituto fondato sul matrimonio indissolubile tra uomo e donna (solo tra uomo e donna, nonostante qualche padre sinodale, preda dello Zeitgeist, avesse messo in discussione pure il fatto che i figli sono concepiti solo tra maschio e femmina), il no fermo alle unioni di fatto – “unioni precarie”, scrive Francesco.
Poi c’è il punto dolens, il capitolo ottavo, quello che tratta delle situazioni cosiddette irregolari. E cioè della comunione ai divorziati risposati. Da nessuna parte, come ha scritto anche il preside dell’Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, mons. Livio Melina, il Papa dice che la comunione va ridata. Non affronta neppure il problema, salvo una nota a pié di pagina (la 351) dove si parla di integrazione che può portare anche a un riaccostamento ai sacramenti previo percorso penitenziale, esame di coscienza, confessione, eccetera. Il Papa dice che non si può sostenere che tutti i casi siano uguali e – soprattutto – che “nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!”. Tanto è bastato per far tirare le somme a buona parte dei media, che hanno subito parafrasato la frase del vescovo di Roma in un inappellabile “la svolta del Papa, ostia ai divorziati risposati”. D’altronde, non c’è più il peccato mortale, si sosteneva da più parti. Si dimentica, però, come ha ribadito mons. Melina, che “l’affermazione di Amoris laetitia dell’impossibilità di definire la mortalità del peccato personale a prescindere dalla verifica della responsabilità del soggetto, che può essere attenuata o mancare, non toglie la necessità di dire che nondimeno è uno stato oggettivo di peccato”.
Un capitolo ambiguo, dicono i più. Si spiega che non poteva essere altrimenti, che trattasi di mediazione tra il fronte rigorista – quello che Bergoglio spesso bolla come il covo “dei cuori duri” – e quello più “misericordioso” (altri preferiscono l’attributo “lassista”). Un capitolo che appare come una breccia nel muro eretto da Familiaris consortio, destinato quindi a crollare sotto i colpi dei paragrafi in cui il Pontefice mette nero su bianco che “molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere ‘come fratello e sorella’ che la chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli”. Il che appare a molti osservatori come un invito neppure troppo implicito a vivere come fossero coniugi. Ma, appunto, non dice esplicitamente neppure questo. Una rivoluzione, insomma, che ha poco del copernicano. Semplicemente, “il documento segnala che ci possono essere circostanze in cui le persone, che vivono obiettivamente in una situazione di peccato, magari non sono soggettivamente colpevoli a motivo dell’ignoranza, della paura, di affetti disordinati e di altre ragioni, che sempre la tradizione morale ha riconosciuto e che il catechismo della chiesa cattolica menziona”, notava ancora il preside dell’istituto sulla famiglia voluto da Giovanni Paolo II.
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