Il Papa d'America
Una dozzina d’anni fa David Frum, columnist conservatore poi transitato per alcuni anni nell’Amministrazione, come speechwriter presidenziale, scrisse una brillante biografia di George W. Bush intitolata “The Right Man”. In cui raccontava divertito che le prime parole che George W. Bush gli rivolse alla Casa Bianca furono: “Missed you at Bible Study”, hai bigiato l’incontro sulla Bibbia. Se non è vera, è ben trovata. Bush era un evangelico born again, anche se il cattolico Ric Santorum di lui disse “è il presidente più cattolico che abbiamo mai avuto”. Barack Obama è invece il presidente con la maggiore conflittualità con la chiesa cattolica da trent’anni a questa parte, o quantomeno con la sua gerarchia nazionale: dal dossier della riforma sanitaria al matrimonio omosessuale alle limitazioni de facto, se non de iure, della libertà religiosa. Ciononostante, accogliendo Papa Francesco Obama ha detto: “Santo Padre, la sua visita mostra quanto tutti gli americani, di ogni ambiente e fede, diano valore al ruolo che la chiesa cattolica ricopre nel rafforzamento dell’America” e in otto anni ha messo nei posti chiave delle sue Amministrazioni una percentuale più alta di cattolici che nemmeno in passato. Ora è in corso una campagna elettorale in cui i tradizionali temi dell’agenda religiosa sembrano contare piuttosto poco, a parte qualche intemerata antiaborista di Trump.
Forse cambierà qualcosa se contro di lui la spunterà in casa repubblicana Ted Cruz, che però cattolico non è: è un evangelico conservatore, figlio di un cattolico convertitosi predicatore protestante e con una moglie figlia di missionari della Chiesa avventista del settimo giorno. Ma otto anni di obamismo sembrano avere depotenziato il ruolo pubblico della religione, in un clima generale di arretramento del suo ruolo pubblico, sociale e culturale. Ed è curioso che questa mattina, in Vaticano, sia ospite della Pontificia accademia delle Scienze Bernie Sanders, ebreo laico, socialista e il candidato su piazza meno interessato alla classica agenda religiosa americana. Mettendo in fila le cose così, la domanda che viene spontanea è: ci siamo persi qualche cosa, qualche cosa di essenziale, nel rapporto tra la chiesa cattolica e gli Stati Uniti d’America? O forse c’è qualcosa della narrazione cui siamo abituati, dello schema interpretativo più consueto del rapporto tra i cattolici e l’America, che andrebbe approfondito? Il dubbio è legittimo, e le risposte non sono a portata di mano.
Il libro di uno studioso di geopolitica italiano, Manlio Graziano, appena pubblicato dal Mulino, “In Rome we trust - L’ascesa dei cattolici nella vita politica degli Stati Uniti” (344 pp., 22 euro) aiuta a mettere in ordine i fattori e a chiarire – quantomeno sotto il profilo cronologico e logico – un fenomeno spesso sottovalutato, e uno strano paradosso. Il fenomeno sottovalutato è il sempre maggiore peso che i cattolici, e a livello geopolitico la chiesa cattolica romana, hanno nella vita politica e istituzionale di un paese che fino a trent’anni fa non aveva relazioni diplomatiche con il Vaticano e le cui élite hanno sempre fatto dell’antipapismo una coordinata della propria identità. Il paradosso è che la crescita del peso cattolico, anche a livello demografico e nei confronti delle denominazioni protestanti ed evangeliche, sembra scontare una incapacità di influenza culturale e legislativa. Per fare un esempio: anche con la morte di Antonin Scalia, il grande giudice costituzionale, nella Corte suprema i cattolici sono ancora in maggioranza mentre non vi sono, da decenni, i protestanti. Un paradosso che anche Scalia sottolineava, quando diceva che alla Corte c’erano soltanto cattolici ed ebrei. Eppure, per stare al gioco, la sentenza Roe contro Wade non è mai stata ribaltata e il matrimonio omosessuale ha trovato un’opposizione non invalicabile. E’ come se la grande “american way of life” che è stata definita come un “protestantesimo secolarizzato” (il grande teologo protestante americano Reinhold Niebuhr parlava di “religione della modernità”) avesse assorbito nel suo secolarismo pragmatico anche il cattolicesimo, dopo aver fatto lo stesso con il protestantesimo wasp.
Allo stesso tempo, che alla Casa Bianca abbia governato Bush o ci sia Obama, annota Graziano, è costante la ricerca di un rapporto privilegiato tra le “uniche due superpotenze dotate di una visione globale dei problemi”. Il professor Graziano fa di conto: nel periodo delle Amministrazioni Obama, oltre a un giudice cattolico della Corte suprema, “più di un terzo dei ministri che si sono avvicendati erano cattolici, mentre nell’insieme della popolazione americana solo un quarto è cattolico”. Cattolici un vicepresidente, il chief of staff del secondo mandato, un consigliere della Sicurezza nazionale, due consiglieri della Sicurezza interna, i presidenti della Camera, un direttore della Cia, un vice dell’Fbi, un capo di stato maggiore. Perché la chiesa cattolica ha scalato così tante posizioni? E che cosa ne ricava? E che vantaggio possono trarre gli Stati Uniti da questa sovrarappresentazione politica della componente cattolica? Graziano è uno studioso di geopolitica, insegna Geopolitica e geopolitica delle religioni alla American Graduate School di Parigi, nonché al Geneva Institute of Geopolitical Studies. E’ anche collaboratore della rivista Limes, condivide sui rapporti tra religioni e politica l’ottica realista di un Lucio Caracciolo e di un Sergio Romano, che firma la prefazione del volume. Il suo approccio alla materia è squisitamente laico, in uno schema interpretativo vagamente schmittiano, nel senso che tende a considerare la chiesa cattolica come un attore politico e fa suo il giudizio di Carl Schmitt (1923) sulla “multilateralità e ambiguità, il doppio volto, la testa di Giano, l’ermafroditismo” della chiesa che le permette, in quanto “partito con una solida visione del mondo”, di “formare coalizioni con i gruppi più disparati”.
Ma “In Rome we trust” è innanzitutto un libro utile sotto il profilo storico, perché con analitica sinteticità ripercorre gli snodi importanti, noti ma spesso trascurati, di una storia a lungo conflittuale. Di aperta ostilità “antipapista” è il rapporto alle origini, le Colonie nascono come anticattoliche: “Nella colonia britannica che Alexis de Tocqueville considerava come il prototipo della democrazia americana, il Massachusetts”, vigevano discriminazioni religiose di natura teocratica (contro cattolici, ebrei e quaccheri) “del tutto sconosciute agli spagnoli”. E ben due leggi, del 1647 e del 1700, “prevedevano la condanna a morte per i preti cattolici sorpresi a tornare in Massachusetts dopo esserne stati cacciati”. A questa inimicizia che lascerà strascichi fino a Novecento inoltrato si contrappone però quella che Graziano chiama la lentissima “scoperta dell’America” da parte di Roma, poiché la Santa Sede, la sua diplomazia e una parte importante del suo episcopato dureranno più di un secolo a comprendere di dover tenere in considerazione l’ascesa della nuova nazione, provando a costruire con essa un rapporto paritetico. Basti dire che al tempo della Guerra di secessione le simpatie di Pio IX erano per il Sud schiavista, e tali rimasero anche a guerra finita – con reprimende interne verso i vescovi statunitensi che si erano schierati con il Nord – tanto da far concludere allo storico Giacomo Martina che “Pio IX si schierava con gli sconfitti della storia, non con i vincitori”. In questo atteggiamento del Vaticano confluivano molti aspetti. La condanna della “modernità” – basti pensare alla libertà di espressione, cardine della Costituzione americana – di cui gli Stati Uniti erano i naturali alfieri; la difficoltà di accettare la separazione tra chiesa e stato e relative sfere di influenza – del resto la chiesa ne aveva subìto in Europa gli esiti violenti, basti ricordare la Costituzione civile del clero della Francia rivoluzionaria; infine un eurocentrismo culturale e geopolitico che ancora fino alla Prima guerra mondiale costituirà il punto d’osservazione della chiesa cattolica sul mondo.
Nel frattempo l’immigrazione e la crescita economica, con i suoi squilibri, aumentavano il peso specifico del cattolicesimo statunitense. Le sue opere sociali, educative, l’organizzazione e il fiancheggiamento dei sindacati contribuirono all’accettazione della chiesa nella società, e alla costituzione di quel “cattolicesimo blue collar” e democratico che sarà il suo profilo sino agli anni Settanta del secolo scorso. Esattamente gli anni in cui si manifesta – è la reazione alla secolarizzazione sociale e alla rivoluzione sessuale dei Sessanta – l’onda del Great Awakening protestante e della Right Nation d’impronta evangelica e che vota repubblicano. Graziano ricostruisce, sempre sulla base dei dati storici, un altro fatto piuttosto paradossale, ma di cui le nostre narrazioni sulla “religione politica americana” spesso non tengono conto: che l’evangelicalismo radicale – dal punto di vista dell’influenza politica – s’è perso in fretta, non ha scalato posizioni nell’establishment e oggi batte in ritirata.
Evidentemente, però, il fenomeno dell’inconsistenza sulla scena pubblica dell’evangelicalismo – rispetto alla strutturata chiesa cattolica con la sua gerarchia, le scuole, le università e le associazioni – era già evidente a presidenti come Ronald Reagan e poi a George W. Bush, uno presbiteriano e l’altro evangelico, che infatti puntarono su un blocco di potere cattolico. Erano gli anni Ottanta di Reagan e Giovanni Paolo II. Le relazioni diplomatiche tra Washington e la Santa Sede vengono riconosciute solo nel 1984, c’è il grande progetto della lotta comune al mondo comunista a unire i due carismatici personaggi. Ma Graziano illumina una problematica di più lungo periodo. In quanto istituzioni globali, Stati Uniti e chiesa vanno incontro a partire dal Novecento a una speculare prospettiva di declino: la sfida è geopolitica ed economica per Washington, di influenza morale per Roma. E’ da questa doppia debolezza che nasce la tendenza al “sostegno reciproco”, che comporta non tanto l’essere in sintonia su ogni dossier e ogni quadrante strategico – gli esempi di divergenza sono moltissimi – ma la consapevolezza di avere, di volta in volta, degli obiettivi comuni. Si tratti dell’anticomunismo novecentesco, della difesa dei “valori non negoziabili” che accomuna la destra protestante di Bush e il Vaticano, oggi la risposta alla sfida dell’islam, oppure l’ambientalismo.
Reagan diceva che la Bibbia è il libro dove c’è una risposta per ogni cosa, Obama ha detto a Papa Francesco che la religione aiuta i politici a pensare. Niebuhr considerava gli Stati Uniti la “nazione più religiosa e anche più secolarizzata dell’occidente”, e probabilmente oggi una grande parte dei cattolici americani soffre questa condizione e inorridisce al solo pensiero di una intesa cordiale tra un presidente assai secolarizzato come Obama e il Papa. Eppure, come spiega il libro di Graziano, persino Obama non ha fatto che confermare la tendenza alla collaborazione tra istituzioni. E poi il presidente se ne andrà tra poco, mentre la tendenza a una predominanza dei cattolici nella vita pubblica americana è destinata a confermarsi in un’ottica di contrasto utilitarista agli eccessi della secolarizzazione.
Anche perché sull’altro lato dell’oceano si assiste a un fenomeno speculare: la “americanizzazione” della chiesa cattolica. Oggi i cardinali statunitensi ammessi al Conclave sono il gruppo più consistente (e ricco) dopo quello degli italiani e il peso economico delle istituzioni ecclesiali americane è il più elevato a livello globale. E questo per un paese che è patria solo del 7 per cento dei cattolici mondiali. Si tratta anche qui di un fenomeno di lungo periodo, che non può essere smentito dal fatto che il Papa regnante abbia occhi più per la chiesa del sud del mondo che per quella “norteamericana”. L’interesse comune delle due superpotenze “morali” mondiali rimane quello di lavorare per una prospettiva di contrasto alla secolarizzazione o addirittura di “desecolarizzazione”, come qualche studioso la chiama. Si può obiettare a Graziano che la missione della chiesa sia riducibile a questa prospettiva “politica”. Ma, in attesa che l’America ritrovi il suo destino manifesto, bisogna attenersi ai fatti.