“Accogliere, ma…”. La chiesa europea non sa bene che fare con i migranti
Roma. Che vi fossero posizioni diverse tra le file dei vescovi europei circa la risposta da dare alla crisi migratoria, era noto. Lo stesso presidente del Consiglio delle conferenze episcopali continentali, il cardinale arcivescovo di Budapest Péter Erdo, l’ha riconosciuto, motivando così la difficoltà della chiesa europea a rispondere in modo compatto alla chiamata di Francesco per dare rifugio a chi cerca la salvezza dalle guerre, abbattere i muri e costruire ponti. “Il fenomeno migratorio va affrontato a livello continentale, tenendo presente le diversità che ci sono nelle diverse regioni europee che vanno esaminate con pazienza per trovare le risposte cristiane adeguate alle sfide concrete”, sottolineava Erdo – che ha voluto precisare come “in nessun paese europeo ci sono muri” – al termine di un’udienza con Francesco durante la quale “abbiamo parlato a lungo di migrazione, ma il problema non può essere spiegato in un comunicato di tre righe”. La complessità della situazione fa sì che “dare una ricetta unica sia molto difficile”.
Se il porporato ungherese tenta di mediare tra le diverse anime dell’episcopato, diviso tra chi vorrebbe mettere in pratica nella particolarità delle singole diocesi la strada illustrata dal Pontefice – soprattutto l’accoglienza di una famiglia di profughi nelle parrocchie, nei monasteri e nei conventi, come auspicato nell’Angelus dello scorso 6 settembre – e chi invece si mostra dubbioso sulla sua replicabilità in contesti tanto diversi, ben più netto è stato il cardinale Dominik Duka, arcivescovo di Praga, che ha tirato in ballo direttamente Bergoglio riguardo gli effetti della crisi migratoria. “La sensibilità di Papa Francesco sulle questioni sociali è diversa dalla nostra. Papa Francesco è popolare e ci sono diverse ragioni per la sua popolarità. Egli proviene dall’America latina, dove il divario tra ricchi e poveri è maggiore”, ma “una comprensione profonda e radicata della storia del continente è di vitale importanza”. Il problema è rappresentato dal modo in cui si declina la sua visione sociale – che per Duka è prettamente sudamericana – dinanzi alla crisi che attraversa l’Europa.
L’arcivescovo di Praga pensa al viaggio lampo sull’isola di Lesbo e dice che “è stato solo un gesto. Quando i media mostrano il Papa incontrare i rifugiati a Lampedusa, anche io vorrei piangere e dire che dobbiamo aiutare queste persone. Tuttavia, questo non risolve tutto. Quando poi il Pontefice manda il segretario di stato Parolin alle Nazioni Unite e questi chiede un intervento umanitario, i mezzi di comunicazione non lo mostrano. Si soffermano solo sul Papa”. Il grave errore, ha spiegato ancora il porporato, sta in un’interpretazione forzata della “cultura dell’accoglienza” che porta ad accettare tutti i rifugiati del medio oriente in Europa. Una situazione che sta dividendo le società europee e mettendo a repentaglio la loro sicurezza: “Penso che una larga parte della responsabilità per questa paura sia di coloro che dicono ‘dobbiamo accettare tutti’, senza tenere in considerazione che queste persone provengono da una ‘cultura e civiltà completamente diverse’”. L’Europa, ha detto ancora l’arcivescovo di Praga, “non è in grado di integrarli e questi tentativi potrebbero provocare un’enorme catastrofe umanitaria ed economica”.
La ricetta è quella proposta dalle chiese orientali, che da tempo denunciano il progressivo esodo e conseguente sparizione della comunità cristiana dalla Siria e dall’Iraq: fare il possibile per aiutare in loco le popolazioni minacciate, mettendole in grado di non cedere alle sirene europee che promettono porte aperte e accoglienza, come ha fatto Angela Merkel che – sono parole del cardinale Duka – “mina una serie di princìpi fondamentali dell’Unione europea, i problemi della sicurezza e l’accordo di Schengen”.
Editoriali
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