Il dramma di Papa Francesco
L’esortazione Amoris laetitia sembra svelare il dramma interiore di Papa Francesco. Formato nella tradizione pastorale dei gesuiti, che si orienta secondo il principio “del discernimento degli spiriti nella situazione concreta” e anche secondo la regola che “bisogna entrare nella casa dell’altro uomo attraverso la sua porta e uscirne attraverso la propria”, il Papa propone una praxis pastorale di questo genere nei confronti degli uomini dal “cuore indurito” (Mt 19, 8). Questi edificano le loro dimore sulla negazione delle “Dieci Parole” (Decalogo) “scritte dal dito di Dio” (Es 31, 18) sull’uomo che Dio sta creando nel Suo Figlio “fino a ora” (Gv 5, 17). Le edificano sul loro cogito che dubita se sia vero che Cristo “non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro”, poiché “sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv 2, 25). Attraverso il cogito, che è anche un pratico volere, s’insinua nella Chiesa il dubbio ariano se Cristo sia davvero Dio e se i sacramenti siano ciò che la fede della Chiesa dice di vedere in essi, ovvero non siano che segni vuoti scritti sotto la spinta emotiva nelle situazioni concrete. Amoris laetitia ci costringe a una profonda riflessione sulla fede, sulla speranza e sull’amore, cioè sul dono della libertà ricevuto da Dio, poiché essa stessa non porta un chiaro messaggio riguardo al “dono di Dio” che sono la verità, il bene, la libertà e la misericordia. Basta aprire la Bibbia per sapere che con il “dono di Dio” gli uomini fin “da principio” ebbero difficoltà e non sempre i sacerdoti li aiutavano a vincere la loro “dura cervice” (Es 32, 9).
Con il “dono di Dio” incontrarono difficoltà il sacerdote Aronne e suo fratello Mosè. Questi, vedendo il vitello d’oro “fabbricato da Aronne” che sotto la pressione del popolo “gli aveva tolto ogni freno, così da farne il ludibrio dei loro avversari”, si accese d’ira e spezzò le tavole dei Comandamenti dati da Dio a Israele. Alla domanda di Mosè: “Che ti ha fatto questo popolo, perché tu l’abbia gravato di un peccato così grande?”, Aronne provava a scusarsi, senza riuscire: “Tu stesso sai che questo popolo è inclinato al male. Mi dissero: ‘Facci un dio, che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia capitato’”. Allora Mosè disse: ‘Chi sta con il Signore, venga da me!’”. A quelli che si unirono a lui ordinò di brandire le spade e di uccidere persino i loro fratelli, parenti e amici. “‘Ricevete oggi l’investitura dal Signore – disse loro – ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi Egli vi accordasse una benedizione’” (Es 32, 14-29).
Il giorno dopo Mosè ritornò al Signore per implorare un misericordioso perdono per Israele (ib. 30). Dio gli ordinò di tagliare due nuove tavole e di scrivere su di esse ancora una volta le “Dieci Parole” (Decalogo) e Mosè salutò il Signore con queste parole: “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà /…/ che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione” (Es 34, 6-7). Presto però anche lui, Mosè, cedette alle pressioni della gente malata di “sclerosi del cuore” (sklerokardia, Mt 19, 8) che “da principio” colpisce gli uomini che vivono nel matrimonio. Egli permise agli “sclerotici” di ripudiare le mogli, ovvero i mariti, quando non trovino “grazia” ai loro occhi (Dt 24, 1). Si comportò così secondo la tesi marxista che la quantità si tramuta nella qualità quando raggiunge la massa critica, cioè che il male commesso spesso cessa di essere male e diventa un bene. E’ su questa massa critica dei matrimoni malati che Mosè appoggiò la sua antropologia. Marx doveva conoscere la logica di situazione di Mosè e ne trasse quelle conclusioni che oggi fanno sì che la sociologia e le statistiche assumano il ruolo che spetta al Decalogo.
I sacerdoti e i Mosè che oggi dovrebbero aiutarci a vivere nella presenza della Parola del Dio vivente, storicamente incarnata e presente in mezzo a noi per sempre nell’Eucaristia, si trovano tra l’incudine e il martello. Da un lato su di loro esercitano pressioni gli uomini “di duro cuore” e da un altro lato li inquietano le parole di Cristo che, poiché in Lui Dio crea l’uomo, “sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv 2, 25): “Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio” (Mt 5, 31-32). Alcuni dei nostri pastori e “arcipastori”, cercando di non commettere apertamente l’errore di Mosè e nello stesso tempo di non esporsi anche alle critiche da parte dei “cuori sclerotici”, ci assicurano che l’indissolubilità del matrimonio è fuori discussione. Entrano però in un vicolo cieco quando comunque pretendono che il pensiero pratico sui matrimoni falliti si appoggi anche su una piccola parola – “ma” – che permetta loro di costruire commenti casistici con i quali giustificare l’adulterio. Propongono una casistica “sì, ma” che prende in considerazione non tanto la coscienza dell’uomo, quanto la sua inclinazione al male. Se si dovesse andare avanti così, c’è da aspettarsi che a breve seguirà il caos, in cui le persone soggette all’inclinazione al male andranno in giro per le parrocchie e perfino per le diocesi in cerca dei casuisti più furbi. Oggi ci serve urgentemente un Pascal, che scriva “Le nuove Provinciali”.
Le parole di Cristo sono chiare e univoche. Spiegando alla gente il Decalogo, ordina in modo inequivocabile: “Sia /…/ il vostro parlare sì, sì: no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). Tuttavia gli uomini dai “cuori sclerotici” preferiscono il chiaroscuro che fanno del frammentario “sì” e del chiassoso “no” e che loro ritengono la più grande conquista della loro intelligenza. E’ di questo chiaroscuro che formulano un concetto della misericordia tale che nel momento di essere emotivamente mossa dalla povertà altrui lascia la Verità dell’Amore nell’agonia nel Giardino degli Ulivi. Ciò significa che questo concetto serve come la misericordia che usano i cavalieri quando danno il colpo di grazia a chi già è ferito a morte.
Molti politici di oggi, sfruttando il caos dottrinale nella Chiesa, non trovano più difficoltà nel comportarsi come si comporta il Grande Inquisitore di Dostoevskij. Non comprendendo il dono divino della libertà che viene dalla verità, il vecchio cardinale di Siviglia rinchiude Cristo in prigione. Ben presto però, travagliato dalla presenza della Parola che inquieta la sua coscienza al punto da costringerlo a giustificarsi davanti a se stesso, La espelle dalla società.
Oggi Cristo tace, come tace in Siviglia. Mostra la misericordia sia ai vecchi che ai giovani Inquisitori, baciandoli sulla bocca. Questo bacio brucia i loro cuori come brucia il cuore del cardinale di Siviglia? Non sappiamo, poiché li differenzia il fatto che il cardinale di Siviglia permane ostinatamente nelle proprie idee, mentre gli Inquisitori politici di oggi permangono ostinatamente nel vuoto, in cui tutto è banale per loro.
Crea il vuoto nell’uomo il suo distanziarsi da Cristo, che convinse gli uomini quanto al peccato (cfr. Gv 16, 8) con la Sua testimonianza data alla verità pensata in Lui e per Lui nell’atto della creazione del mondo e dell’uomo. Nel Giardino degli Ulivi i discepoli di Cristo dormono, mentre Egli è in agonia accanto a loro. Essi invece, in modo assonnato e quindi irresponsabile, si adattano alla politica correttezza imposta da un Inquisitore invisibile che fa da padrone nella quarta Roma delle organizzazioni internazionali. I discepoli creano le narrazioni pastorali, scambiando il sogno per lo stare desto, la malattia per la salute, il peccato per la virtù. Si piegano a se stessi sempre più lontano dal mondo reale.
“Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento” (B. Pascal). Il traditore si avvicina con un bacio di morte. Sotto la croce resteranno soltanto un mistico e le donne, e a seppellire Gesù li aiuteranno i suoi amici segreti. I discepoli invece si rintaneranno nei loro nascondigli.
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“Ci sono tante forze nel popolo,
Ci sono tanti uomini;
Entri infine il Tuo Spirito
E svegli gli addormentati”
(Stanislaw Wyspianski, “Wyzwolenie”, II)
Il poeta polacco Stanislaw Wyspianski scrisse questa preghiera nel 1902, quando in Europa non c’era lo Stato polacco, ma c’era la nazione polacca che desiderava la libertà e sognava di recuperarla. Oggi è l’Europa che ha bisogno di una tale preghiera, ne ha bisogno soprattutto la Chiesa. E’ alla Chiesa che incombe l’obbligo di predicare in modo orante la verità che tutti apparteniamo a Dio e che perciò a noi tutti si riferiscono le parole con cui Cristo, dopo aver spiegato il senso del Decalogo, conclude il grande discorso sul Monte delle Beatitudini: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Il vero, il bene e il bello di ogni essere ricevono la vita dall’Ideale che è Dio. San Giovanni Paolo II disse ai giovani che sono obbligati a esigere da se stessi le cose ideali, anche quando gli altri non le esigono da loro. Oggi, quando la deformazione ariana della Parola del Dio vivente s’insinua nelle menti dei teologi e persino dei vescovi, il che in pratica significa fermare i cristiani nell’errore antropologico di Mosè e di Marx, che cioè conosce il bene colui che lo vede dal punto di vista del male, come è attuale il monito del giovane Karol Wojtyla: “Non si può pensare soltanto con un frammento di verità, bisogna pensare con tutta la verità” (“Fratello del nostro Dio”)! Fra breve Cristo dirà: “Chi sta con il Signore, venga da me!”. Invece di mettere le spade nelle mani di quelli che si schiereranno dalla parte del Signore, coma fece Mosè, Cristo metterà nella loro bocca le parole di fuoco: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 10, 37-38).
Stanislaw Grygiel è ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma, è stato allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino, diventandone poi consigliere