Diario della persecuzione
Nel mondo non si conosce il martirio che la chiesa in Iraq sta vivendo”, dice al Foglio mons. Francesco Cavina, vescovo di Carpi, che lo scorso aprile ha compiuto un viaggio nel Kurdistan iracheno, raccogliendo in un diario le impressioni, i dialoghi, gli incontri avuti in quei quattro giorni che – ammette – hanno lasciato tracce profonde: “Riconsoco che ho ricevuto un dono molto più grande di quello che ho portato; dono che si esprime nella dignità con cui questi fratelli vivono la loro condizione”. E’ impressionante, spiega il presule, vedere come queste persone “sono grate per tutto quello che ricevono d’aiuto e grati a Dio per aver conservato la loro vita. Ma ancor di più per aver conservato la fede per la quale sono stati disposti a rinunciare a tutto pur di non perdere il vero tesoro della vita che è Cristo e la propria appartenenza al suo corpo mistico, che è la chiesa”. La situazione sul terreno è drammatica, l’appello costante è a non essere dimenticati, a non essere lasciati soli.
Mons. Francesco Cavina (foto di Twitter)
“I cristiani percepiscono un senso profondo di solitudine in quanto con l’avanzare delle milizie jihadiste si sono sentiti traditi dalle istituzioni del governo, ma ancor più dolorosamente da coloro che ritenevano amici, che non solo non li hanno difesi, ma denunciati. E una volta che i cristiani hanno abbandonato le loro case, le hanno occupate. Dei loro beni, hanno fatto razzia”. Non vogliono rassegnarsi a essere profughi per sempre; il loro massimo desiderio è di tornare nelle città e nei villaggi in cui sono nati e hanno vissuto. Ricorda, mons. Cavina – che per quindici anni ha lavorato in Segreteria di stato, presso la sezione per i Rapporti con gli stati – ciò che disse Bashar Warda, vescovo di Erbil, durante l’incontro dello scorso 1° aprile: “Io credo che la risposta unica al male sia quella di rimanere e portare il nome di Gesù”.
C’è quasi paura di spostarsi, anche di abbandonare la sistemazione nel campo profughi, spesso precaria e a volte con condizioni igieniche indescrivibili: “Accanto a strutture ben organizzate, infatti, ce ne sono altre che ricordano un vero girone dell’inferno dantesco”, spiega il vescovo di Carpi descrivendo un campo che accoglie circa mille persone e che per servizi igienici ha delle buche scavate nel terreno ricoperte di sassi. “Mi sono sentito angosciato e impotente, alla vista di quelle condizioni”. Eppure, non se ne vogliono andare, nonostante a molti sia stata offerta una soluzione migliore. Il motivo del diniego è sempre lo stesso: “Temono diventi una sistemazione definitiva. Loro, però, desiderano solo ritornare a casa”. La persecuzione è nelle parole di quanti l’hanno vissuta. “Il 3 agosto di due anni fa ci hanno detto che dovevamo abbandonare le nostre case perché la situazione qui a Mosul era molto difficile. Tutti i cristiani erano fuggiti e anche noi dovevamo partire”, ha raccontato una giovane suora che ha studiato in Italia. “Sono rimasti il prete con tre o quattro giovani per difendere la chiesa. Il 5 agosto è stato ucciso un giovane diacono, ma l’obiettivo era uccidere il prete. Il 6 agosto noi eravamo in una zona vicina a Kilkesh. Alle 11 di notte hanno cominciato a saprare e hanno detto che tutti i cristiani dovevano uscire da quella città perché l’Isis era entrato prima a Qaraqosh e poi a Kilkesh e in altre zone. La situazione era talmente problematica che ci hanno detto di scappare nonostante gli spari”. Poi, aggiunge la religiosa, “abbiamo sentito che le nostre case erano state prese dall’Isis”.
L’impressione che si ha, sottolinea il vescovo di Carpi, “è che lo Stato islamico – e non solo questo – persegua l’obiettivo di eliminare la presenza dei cristiani dal paese costringendoli a emigrare. Si tratterebbe di una violenza che va ben oltre l’aspetto religioso. I cristiani, infatti, non accettano di essere definiti come una minoranza religiosa da tollerare. Rivendicano a pieno diritto, invece, il diritto di cittadinanza”. Yohanna Petros Mouche è il vescovo siro-cattolico di Mosul. Oggi, con la sua comunità, è a Erbil, dopo la fuga precipitosa nel 2014. Il pericolo maggiore è la dispersione dei fedeli, l’interrogativo è come sia possibile in questa situazione assicurare un futuro, un lavoro, a quanti sono stati costretti all’esodo dopo che sulle loro case era stato impresso il marchio di “nazareno”. “Molti – dice Mouche – non hanno il denaro per seppellire i morti e quindi c’è la necessità di avere cimiteri propri. Un altro problema è il mantenimento dei campi profughi, e poi ci sono le spese per il trasporto degli studenti dai campi profughi alle scuole”. Qualcosa si muove, certo: sono stati realizzati due panifici, qualche centro per produrre l’olio di sesamo. Se manca il lavoro, la gente se ne va. A Erbil erano giunti cinquantaduemila cristiani. Oggi sono rimasti trentamila. Il Patriarca caldeo di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, anch’egli incontrato da Cavina a Erbil (assieme al vescovo di Ventimiglia-Sanremo, mons. Antonio Suetta e al direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre - Italia, Alessandro Monteduro), spiega che la vicinanza spirituale è molto più importante dell’aiuto economico.
E’ una costante, questa, che si può toccare con mano ogni volta che si parla con qualche esponente del clero in Siria o Iraq. Lo stesso affermò, sempre al Foglio, il parroco della cattedrale latina di Aleppo, frate Ibrahim Alsabagh, quando sottolineò la grande esperienza di fede sperimentata mentre le bombe cadevano sulla cupola della chiesa ove si celebrava la messa, lo scorso ottobre. “Non è importante l’aiuto economico, ma l’appoggio umano e spirituale, perché le persone si sentono incoraggiate”, osserva Sako. L’immagine più eloquente di questo lo si è avuto entrando alla scuola “L’Annunciazione” delle Suore domenicane di Santa Caterina da Siena, una congregazione di diritto pontificio presente a Ebil. Ricorda mons. Cavina che nell’istituto sono presenti quattrocentotrenta bambini, tutti profughi cristiani. Erano di più, all’inizio. Molte famiglie, però, hanno preferito scappare, cercando futura all’estero. La scuola – gratuita – ha l’obiettivo principale di far dimenticare il dramma vissuto. “I bambini sorridono, sì. Ma nei loro occhi si vede un velo di tristezza”, riconosce il vescovo di Carpi. Le suore dell’istituto a Mosul gestivano una scuola materna, un orfanotrofio e una casa per religiose anziane. Dopo la fuga precipitosa, quindici di esse sono morte, sfinite dagli spostamenti avventurosi e dal dolore per aver abbandonato la terra dove avevano sempre operato.
I bambini salutano quando vedono entrare degli sconosciuti: “Siamo stati accolti con l’invocazione ‘Dio è amore!’, e ci hanno quindi cantato una canzone in italiano, ‘La stella di Natale’. In un’altra classe hanno pregato l’Angelo di Dio e poi abbiamo partecipato con loro all’adorazione”. Bambini che, dopo aver perso tutto, adorano il Santissimo Sacramento, cosa che pare incredibile alle latitudini occidentali avvezze ormai a confrontarsi con una fede divenuta via via sempre più tiepida : “Il Santissimo era esposto su un tavolo rotondo e tutt’attorno erano disposti i bambini in cerchio, con le mani giunte e inghinocchiati all’orientale. Hanno pregato, cantato e sono rimasti in silenzio. Mi ha impressionato – dice mons. Cavina – la loro compostezza e attenzione. Molti pregavano e cantavano a occhi chiusi”. A Ozal City, periferia di Ankawa, si sono stabilite settecentottantadue famiglie fuggite da Qaraqosh. Sono siro-cattolici. In ogni casa sono accolte tre famiglie: venti persone con un solo bagno e una sola cucina. Una delle prime cose che hanno fatto al termine della loro peregrinazione è stata costruire la loro chiesa. E’ stato messo in piedi anche un asilo. “In stanze di quattordici metri quadrati, stanno diciannove bambini”, dice mons. Cavina, che aggiunge: “Ho chiesto alla responsabile, suor Maria, come riesca a gestire tanti bambini in spazi così ristretti. Mi ha risposto che l’amore e la necessità aguzza il cervello e la creatività”. Qaraqosh aveva cinquantamila abitanti. Oggi è deserta. I pochi cristiani rimasti si sono convertiti all’islam o pagano la jyzia, la tassa riservata agli infedeli, antico retaggio ottomano.
Intanto, l’appello di Aiuto alla Chiesa che soffre-Italia lanciato sul Foglio la scorsa settimana affinché anche il Parlamento del nostro paese riconosca il genocidio in corso continua a registrare adesioni (sono già decine i deputati e i senatori che hanno sottoscritto la richiesta). Anche l’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, mons. Mouche, ha sposato la causa: “Chiedo personalmente al governo italiano di aiutarci, attraverso il riconoscimento ufficiale del genocidio, a tornare nelle nostre terre e a continuare a vivere nel nostro paese. Ringrazio Dio – ha aggiunto – che tante persone e alcune istituzioni abbiano finalmente iniziato a riconoscere quanto è accaduto alla nostra comunità, che è un autentico genocidio. Per conservare la nostra fede abbiamo lasciato tutto: le nostre case, i nostri averi. I jihadisti hanno distrutto il nostro patrimonio storico, religioso e culturale, hanno impedito ai nostri bambini di tornare a scuola, vietano la celebrazione della liturgia in molte aree storicamente cristiane. Per noi questo è un grande genocidio”, ha proseguito il presule.
A giudizio di mons. Mouche, se più paesi riconoscono il genocidio, ciò potrà contribuire a mettere più pressione sul governo iracheno affinché lavori per proteggere con più vigore le minoranze oggi minacciate. Solo così, insomma, Baghdad potrebbe impegnarsi “maggiormente ad aiutarci a tornare nei nostri villaggi, a ricostruire le case distrutte e a garantirci sicurezza. Se non fosse stato per la chiesa locale e per quanti ci hanno aiutato – ha aggiunto – queste persone non avrebbero di che vivere”. Nei giorni scorsi, era stato il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso ad appoggiare l’iniziativa: “I cristiani vengono uccisi, minacciati, ridotti al silenzio o cacciati via, con le chiese che vengono distrutte o rischiano di trasformarsi in musei. Il cristianesimo rischia di non essere più presente, proprio nella terra in cui è nata la fede di Cristo. Nel 1910, il venti per cento della popolazione mediorientale era cristiana. Ora è meno del quattro per cento. Evidentemente – sottolineava ancora Tauran – c’è un piano d’azione per cancellare il cristianesimo dal medio oriente e questo può chiamarsi (o quantomeno richiamare) il genocidio”.