L'allegro integrismo del card. Biffi, apostolo del sorriso e della verità
Giacomo Biffi fu apostolo del sorriso, della polemica pugnace e beffarda, di una verità fortemente sentita, creduta, ragionata, mai esposta con malevolenza ed esclusivismo. Secondo Romano Guardini, che ne ha scritto a proposito di Pascal e della sua scelta finale del silenzio, non esistono “grandi cristiani”. I santi non sono “grandi”, gli basta essere santi, che non è notoriamente poca roba. E l’intelligenza cristiana delle cose è un essere contenuti nel più piccolo, un loyoliano contineri a minimo, che non prevede, appunto grandezze. Tuttavia le qualità intellettuali e le virtù pubbliche di personalità del mondo cristiano, che giganteggiano nel loro tempo, possono essere definite grandi. Nel caso di Giacomo Biffi questo è per me sicuro.
Ho conosciuto Biffi ormai à la rétraite nella casa fondata dal cardinal Lercaro, a Bologna. Il Cardinale Emerito, senza clausole di rappresentanza, nella pulizia disadorna della sua condizione di pastore, di scrittore memorialista, di saggista e di teologo che faceva a corte gli Esercizi Spirituali, che godeva di una incredibilmente vasta e profonda stima nella Chiesa e in tanto popolo, ebbe la bontà o la curiosità o la sapienza di prendere talvolta a interlocutore, in conversazioni di cui conservo un ricordo bellissimo, un qualunque giornalista intrappolato non già dalla fede ma dalla capacità della fede cristiana di dire la sua ragione. Era anche una ragion politica, nel senso meno molesto e più oculato del termine, che si occupava della nazione come dell’ecumene, del talento vitale della Chiesa che era soggetto storico nel tempo e non soltanto oggetto di meditazione nello spazio mistico, spaziava da Pinocchio alla Pentecoste, dal cristocentrismo all’anticristo, dalla catechesi all’ideologia intese come vaste diocesi in cui il pastore si definiva propriamente come parroco, e il parroco si arrogava le tensioni e le spericolate acrobazie del filosofo della storia, dell’interprete della parola di Dio in una lingua sofisticata e popolare, mai sazia e mai disperata (per parafrasare la celebre espressione che il Cardinale di Bologna dedicò alla sua città, il cui cuore moderno e cosciente di sé era per lui, appunto, sazio e disperato).
Come memorialista e critico letterario, nelle Memorie di un italiano cardinale o negli scritti su Collodi e sul Risorgimento, Biffi seppe essere witty, seppe fecondare con lo humour del suo occhio scrutatore e del suo spirito di grandissimo moralista un discorso anche pubblico sull’incontro e sul conflitto tra cristianesimo e modernità. Si occupò con trasparenza, figlio di un papa Giovanni, di un Paolo, di due Giovanni Paolo e di un Benedetto, del profilo laico, ma sanamente laico, della politica e della storia contemporanea. Fu sempre attento – “l’italiano cardinale” – al paese di Dante, cui attribuiva una coscienza universale e un rango di primissima classe in ragione della sua aderenza, fin dalla tarda antichità, allo svolgimento della storia della salvezza secondo il vangelo e la sua Chiesa Cattolica casta meretrice.
Cardinale Giacomo Biffi (Foto LaPresse)
In questa enfasi predicatoria, sempre umilmente sottoposta alla norma parrocchiale e oratoriana dell’understatement, della chiarezza e della semplicità di lingua e di forma, quell’uomo di Dio e di Chiesa dall’ovale perfetto del volto, dalla mente lucida e svagata ma intima a sé stessa, e dalla fede intrinseca mai ostentata come fede personale, ma più spesso ragionata sorridendo come fede per il pubblico, in questa enfasi seppe togliersi grandi soddisfazioni intellettuali. Disse che Cristo negli anni della predicazione era ricco e amico di ricchi. Che il dubbio è parte costitutiva della persona umana (a dubitare ci arrivo da solo, aggiungeva) ma la funzione della Chiesa è diffondere elaborare garantire certezza. Che l’anticristo di Solovev era un pacifista, un vegetariano pieno di buoni sentimenti. Che nessuna ecologia è credibile se non parta dall’abbraccio a una visione intransigente di ciò che è difesa della vita. Che essere chiamati integralisti, per i cattolici seri, può equivalere a essere chiamati cristiani. Ebbe parole di fuoco sacro contro la demolizione della fede dall’interno, intesa come costrizione dei semplici a diventare cattolici adulti. Derise i falsi profeti non di sventura ma di serenità e di ore tranquille imminenti. Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio, disse, e così chiosò la prevalenza del politicamente corretto. Si scatenò con bonaria ferocia contro coloro che a forza di comprensione e dialogo non riuscivano più a denunciare l’intossicazione della fede cristiana e del suo sostrato di cultura e di civiltà.
Ma tutto questo, e molto, moltissimo altro ancora, non era mai disgiunto da una benevolenza vera verso le persone, verso gli erranti, verso coloro che potevano essere censurati con la nota vivacità ma sempre restavano, e non solo nel loro cuore ma nel cuore di Biffi che li segnava a dito, uomini di Dio. Non era un pedante, non voleva una Chiesa prescrittiva e moralistica nel senso della teologia morale ormai ossificata, ma assertoria e sicura di sé nel suo magistero di umanità e di divinità. Nelle conversazioni con l’Emerito era spettacolare la sua irruenza, la sua secchezza chiara e distinta nell’eliminazione dell’equivoco, non meno della sua carezzevole sicurezza del fatto che nella Chiesa si ama e si è amati in un modo speciale, tutto proprio, il che naturalmente rendeva effervescente e a suo modo santa, per uno come me che stava fuori dalla Chiesa in senso tecnico, la vitalità di idee e di sentimenti che si godeva intra muros.
Biffi parlava della Madonna con un fondo lacrimale che non stingeva le linee diritte del discorso, e considerava la fede come la quintessenza che qualcuno doveva pur alchemicamente distillare, compito non bigotto ma umanistico, non mistico ma di razionalismo cristiano. Con i razionalisti immanentisti, negatori di ogni possibile trascendenza, aveva nulla da spartire. Con chi credeva nella possibilità della fede e nella Rivelazione come origine del mondo cristiano, come notizia, come scrittura e sacra doctrina, sapeva tenere il timone della discussione su una rotta appunto laica e sempre risonante di idee storiche, di atteggiamenti non fideisti. Insomma, il Cardinale esercitava una paternità indicibilmente autorevole, dava un senso liturgico, inteso come convocazione continua del creato di fronte al mistero del suo essere creato, anche alle polemiche del basso mondo. E finì con quella splendida predicazione degli Esercizi Spirituali, sentendo e facendo sentire alla corte teologico-papale di Benedetto XVI la voce immensamente allegra e annunciatrice dei cherubini. un testo di tale bellezza, estroversione, e caratura letteraria, che mi sembrò giusto, opportuno, pubblicarlo su un piccolo giornale quotidiano, di cui portavo la responsabilità, come testamento di un prete pieno di immaginazione, di obbedienza, di fede e di amore del mondo nel senso in cui il mondo può essere amato da un principe della Chiesa. Pubblicarlo integralmente, certo, e forse anche integristicamente.