Rivoluzione papale
Roma. Più che nei controversi documenti post sinodali e nella lenta riforma della governance curiale, la rivoluzione di Francesco consiste nella scelta dei nuovi vescovi mandati a guidare le diocesi sparse nel mondo. In un recente articolo pubblicato dal Sir, il Servizio d’informazione religiosa della Conferenza episcopale italiana, si legge che nel primo triennio di pontificato Bergoglio ha nominato per la sola Italia ottantacinque vescovi: più di un terzo del totale, essendo duecentoventisei le diocesi presenti nel nostro paese. L’età media dei prescelti è di cinquant’anni, il che significa che il mandato è – in teoria – di almeno venticinque anni. Il tempo sufficiente, insomma, per lasciare un’impronta tangibile. In calendario, poi, ci sono altri spostamenti tutt’altro che irrilevanti, a cominciare dalla nomina del successore del cardinale Angelo Scola a Milano, che compirà 75 anni il prossimo novembre e che si avvia – al netto della possibile proroga che il Pontefice potrebbe concedergli – al pensionamento. Il prossimo anno, poi, sarà scelto il nuovo presidente della Cei dopo il decennio a guida di Angelo Bagnasco. Si applicheranno per la prima volta le nuove norme, che prevedono la presentazione al Papa d’una terna votata dall’assemblea dei presuli da cui scegliere il numero uno.
Non si tratta solo d’un semplice e routinario ricambio dovuto a pensionamenti e trasferimenti, bensì di un sostanziale mutamento del profilo scelto per il ruolo episcopale. In chiara discontinuità – come è legittimo che sia, potendo il Pontefice nominare chi voglia, senza essere vincolato a suggerimenti, terne e proposte portate sul suo tavolo – con il quarto di secolo precedente. Per cogliere la portata della rivoluzione è sufficiente soffermarsi su qualche caso-campione: Chicago, Madrid, Bruxelles. Tre diocesi di peso, tradizionalmente cardinalizie, i cui pastori incarnano un profilo distante – se non opposto – rispetto agli immediati predecessori. Nella città americana, dopo il protagonista della stagione delle culture war, il cardinale Francis Eugene George – che fu anche presidente della locale conferenza episcopale – Francesco ha mandato mons. Blase Cupich, già vescovo della modesta Spokane, non tra i prediletti di George. Cupich è ritenuto essere il miglior interprete della nuova agenda vaticana, meno attenta allo scontro muscolare e più incline a guardare a ciò che accade nella periferia, che non è un mero concetto geografico, bensì implica – come ha scritto il diplomatico Pasquale Ferrara ne “Il mondo di Francesco” (San Paolo) – un riferimento all’esclusione e all’espulsione di popoli e società da condizioni di vita dignitose e rispettose dei diritti fondamentali.
Non si tratta, insomma, solo di sposare i dettami dell’enciclica Laudato si’ o di mostrarsi attenti agli ultimi, bensì di rappresentare la linea di profondo rinnovamento illustrata da ultimo da Francesco nel discorso all’episcopato americano tenuto a Washington lo scorso settembre. Lo stesso si può dire per Madrid, dove due anni fa fu mandato mons. Carlos Osoro Sierra, che già in tempi non sospetti era definito “il piccolo Francesco”, data la sua sintonia totale con l’agenda del Pontefice argentino. Negli anni in cui il cardinale Antonio María Rouco Varela – arcivescovo di Madrid e presidente della Conferenza episcopale spagnola assai vicino a Giovanni Paolo II – schierava il clero in prima linea nella battaglia contro le politiche dell’allora primo ministro José Rodríguez Zapatero, Osoro Sierra preferiva rimanere in disparte, ritenendo poco utile ingaggiare lotte pubbliche col governo per difendere i cosiddetti valori non negoziabili. Ancor più evidente la discontinuità a Bruxelles, dove il Papa ha scelto come successore del conservatore André Léonard mons. Josef De Kesel, delfino del cardinale Godfried Danneels, portabandiera della corrente progressista nella chiesa che poco aveva gradito – come rivelò in un’intervista di qualche anno fa l’allora nunzio in Belgio, Karl-Josef Reuber – la decisione di Benedetto XVI di nominare Léonard (unico vescovo belga con fama di conservatore) quale suo successore.
La premessa è che “non esiste un pastore standard per tutte le chiese”, disse Francesco nel febbraio del 2014 intervenendo alla congregazione per i vescovi. Quel che è certo, però, è che “non ci serve un manager, un amministratore delegato di un’azienda, e nemmeno uno che stia al livello delle nostre pochezze o piccole pretese. Ci serve uno che sappia alzarsi all’altezza dello sguardo di Dio su di noi per guidarci verso di lui”. Al di là della grezza contabilità, la direzione tracciata è evidente anche osservando come il Papa si è rapportato all’episcopato italiano. Poche volte si è attenuto alle terne che il dicastero vaticano gli sottoponeva, quasi mai ha trasferito un pastore da una sede all’altra. Più spesso, ha pescato nella base, tra i parroci. E’ il caso – ad esempio – di Padova, Terni, Trento, Belluno e Palermo, dove in una diocesi per tradizione cardinalizia, Francesco ha designato Corrado Lorefice, cinquantatreenne parroco a Modica. Anche per le creazioni cardinalizie, il metodo è lo stesso. Niente porpore di diritto – sono rimasti fuori dal collegio, infatti, sia il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia sia l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia – ma scelte sorprendenti che hanno riguardato i vescovi di Perugia, Ancona, Agrigento. Non è una strategia limitata all’Italia, se si considera che Francesco ha voluto cardinali esponenti di chiese piccole e lontane, come i pastori di Tonga, Capo Verde, Yangon, Saint Lucia. Svolta che fece sobbalzare il filosofo tedesco Robert Spaemann: “Sono stati fatti entrare nel governo della chiesa vescovi completamente sconosciuti, che a volte hanno quindicimila cattolici nelle loro diocesi”.
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