“Più che l'islam, scontiamo la debolezza del cristianesimo nel continente”, dice il card. Koch
Roma. “Il problema non è tanto nella forza dell’islam, quanto nella debolezza del cristianesimo in Europa”. A dirlo è stato il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, chiamato anni fa a Roma da Benedetto XVI per succedere a Walter Kasper e confermato nell’incarico da Francesco. Koch ha rilasciato un’ampia intervista al sito cattolico in lingua tedesca Kath.net, in cui tocca vari argomenti, a cominciare dalle relazioni con la vasta e variegata realtà ortodossa. Ma è su Europa, islam e cristianesimo che il porporato si sofferma in modo particolare, specie dopo l’ennesima strage animata dal fondamentalismo islamico, che lo scorso 14 luglio, a Nizza, ha lasciato distese sulla Promenade des Anglais ottantaquattro persone (decine sono i feriti, molti dei quali ancora in gravi condizioni). “E’ giusto aiutare i musulmani a rendere possibile una vita secondo la loro fede nelle nostre società democratiche”, spiega il cardinale, che però aggiunge: “Ciò di cui mi rammarico un po’ è piuttosto che non si chieda con la medesima chiarezza un trattamento uguale per i cristiani nei paesi islamici”. Si può, insomma, chiedere in modo credibile la creazione di istituzioni islamiche nelle nostre società occidentali solo se (al tempo stesso) si chiede, ad esempio, che l’università greco-ortodossa di Halki, in Turchia, venga riaperta. “Si dovrebbe insistere di più sulla reciprocità”.
Il cardinale Kurt Koch cita il caso del glorioso seminario da cui sono uscite le classi dirigenti del patriarcato di Costantinopoli per più d’un secolo e mezzo. Halki è chiuso dal 1971, quando Ankara decise che sul suolo nazionale non potevano sorgere istituti superiori non pubblici (a meno che non fossero emanazione delle Forze armate o della polizia). Tre anni fa, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si disse disposto a valutare la riapertura della scuola, a patto che rinunciasse al titolo e al conseguente valore legale di scuola di educazione superiore. Proposta subito rispedita al mittente, essendo stata giudicata niente più che provocatoria. La presenza dell’islam in Europa, osserva Koch, “mette in discussione un’acquisizione fondamentale e problematica delle società occidentali, e cioè l’aver relegato la religione nella sfera privata individuale. Tutt’al contrario – continua – l’islam si concepisce come una religione pubblica, che vuole essere pubblicamente visibile”. Ecco perché “l’islam in Europa introduce la provocazione che l’ormai avanzato processo di privatizzazione della religione debba essere rivista”. Anche perché “una società che relega la religione nella sfera privata non può favorire un dialogo interreligioso”. Il cristianesimo europeo, prosegue il porporato, deve insomma “riscoprire le correnti ‘calde’ che ancora scorrono al suo interno, rimanendo fedele alle sue radici, anziché nasconderle con una falsa modestia”.
Il cardinale Kurt Koch
La questione delle radici era stata tirata in ballo anche dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, poche ore dopo l’attentato di Nizza, quando aveva detto che “siamo di fronte a una miscela esplosiva di ideologia, di follia personale e di odio. Una miscela che esplode in modo impazzito, seppure programmato e strategico, verso i paesi dell’occidente, verso la nostra Europa e questo ci deve rendere molto più avvertiti circa la consistenza e la vita della nostra cultura occidentale ed europea”. “Dobbiamo – aggiungeva l’arcivescovo di Genova – coltivare di più i valori europei, le radici europee che sono la cultura cristiana che racchiude non una visione confessionale, ma dei valori universali, delle esperienze che sono il distillato dell’umanità. Allora l’Europa, insieme a una sicurezza crescente, alla fiducia e al coraggio, deve però anche rivedere la propria cultura perché non sia ulteriormente svuotata dei valori fondamentali dello spirito e dell’etica, ma al contrario deve recuperare se stessa, questa anima”.
Su quanto accaduto in Francia è intervenuto, con un’intervista al quotidiano austriaco Der Standard, anche il cardinale primate Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, a giudizio del quale sono necessarie “prese di posizione più chiare da parte delle autorità musulmane”. Anche perché, ha sottolineato il presule, “che sia giusto o meno, il terrore ha in questo momento un’etichetta islamica. I terroristi si definiscono aderenti all’islam non al cristianesimo o ad altre religioni, e questo è un grande problema per l’islam, con cui deve fare i conti”. Certo, “non dobbiamo dimenticare che il maggior numero di vittime del terrore sono musulmani, ma attendiamo parole molto più chiare da parte delle autorità islamiche”. Quel che serve è un profondo processo di rielaborazione e contestualizzazione dei testi sacri.
E’ vero, ha ammesso il cardinale austriaco, che anche l’Antico Testamento contiene “molti passaggi crudeli”, ma è altrettanto assodato che il cristianesimo ha saputo andare oltre l’applicazione letterale di quei passi. Cosa che l’islam non ha ancora fatto, come più volte ha fatto notare – anche a questo giornale – l’islamologo gesuita Samir Khalil Samir. Schönborn – che in un passaggio dell’intervista ammette di comprendere la “preoccupazione” generata da “una migrazione dal medio oriente e dall’Africa” che contempla “una differenza culturale e religiosa” – parla della necessità di avviare “un processo di apprendimento”, simile a quello che la religione ha affrontato più volte nella sua storia, l’ultima delle quali dopo l’olocausto nazista” che ha causato lo sterminio di milioni di ebrei.
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