L'esercito dei martiri
“Il martire scrive col sangue la sua fede: proclama, col suo sacrificio, che la verità ch’egli possiede e per la quale si lascia uccidere, vale più della sua vita temporale, perché la fede è la sua nuova vita soprannaturale, presente e per l’eternità. Nessuno più inerme, più debole, più mansueto di lui; il martire è come un agnello; ma nessuno più coraggioso, nessuno più impavido, nessuno più vittorioso”.
Paolo VI
I turchi si avvicinarono alla città di Otranto con circa centocinquanta navi e quindicimila uomini. La città contava seimila abitanti. Appena dopo l’assedio, fu avanzata richiesta di resa come abiura alla fede in Cristo e la conversione all’islam. Di fronte al rifiuto, la città fu bombardata, e il 12 agosto 1480 cadde nelle mani degli invasori, che la saccheggiarono e uccisero l’arcivescovo, canonici, religiosi e fedeli nella cattedrale. Il giorno dopo, il comandante Gedik Ahmet Pascià ordinò che tutti gli uomini superstiti, circa ottocento dai quindici anni in su, fossero condotti presso l’accampamento turco e obbligati ad apostatare. Istantanea e decisa fu la risposta che a nome di tutti venne data da Antonio Pezzulla, denominato Primaldo, un umile cimatore di panni. Dichiarò che ‘essi tenevano Gesù Cristo per figliolo di Dio e loro Signore e vero Dio, e che piuttosto volevano mille volte morire che rinnegarlo e farsi turchi’. Ahmet Pascià ordinò allora l’immediata esecuzione capitale. Ebbero la testa o il corpo tagliati. Per un anno i corpi giacquero insepolti sul luogo del supplizio dove vennero ritrovati dalle truppe inviate a liberare Otranto”.
Così, in una domenica di maggio di tre anni fa, venivano presentati al Papa da poco eletto, Francesco, gli ottocento martiri che pur di non abiurare la fede accettarono di farsi macellare. Decidere di canonizzarli fu l’ultima decisione di Benedetto XVI, che l’annunciò al mondo pochi istanti prima di comunicare ai cardinali l’abdicazione dal Soglio di Pietro. Francesco, tre mesi dopo quel giorno, elevando alla gloria degli altari quegli uomini, disse che essi “furono chiamati alla suprema testimonianza del Vangelo. Si rifiutarono di rinnegare la propria fede e morirono cofessando Cristo risorto. Dove trovarono la forza per rimanere fedeli?”, domandò Bergoglio. La risposta era semplice: “Proprio nella fede, che fa vedere oltre i limiti del nostro sguardo umano, oltre il confine della vita terrena, fa contemplare i cieli aperti – come dice santo Stefano – e il Cristo vivo alla destra del Padre”. Aggiungeva una postilla, il Papa, che risuona così grave oggi, dopo il massacro del 14 luglio scorso a Nizza e il sacrificio di padre Jacques Hamel a Saint-Etienne-du-Rouvray: “Mentre veneriamo i martiri di Otranto, chiediamo a Dio di sostenere tanti cristiani che, proprio in questi tempi e in tante parti del mondo, adesso, ancora soffrono violenze, e dia loro il coraggio della fedeltà e di rispondere al male col bene”.
Antonio Primaldo, raccontano le cronache del tempo e quelle più recenti, non aveva titoli speciali o incarichi particolari entro le mura della cittadella più orientale d’Italia. Era un sarto. Il suo rifiuto di rinnegare la fede gli fu fatale e il supplizio più tremendo. Ahmet decise che sarebbe stata la sua la prima testa a rotolare, a mo’ di monito ed esempio. Aveva osato troppo, rispondendo a tono al luogotenente del sultano ed ergendosi a portavoce ispirato della folla che fino a un attimo prima appariva sconfortata e rassegnata. Scrive Saverio De Marco nella “Compendiosa istoria degli ottocento martiri otrantini” (1905) che, portato sul luogo improvvisato dell’esecuzione – il colle della Minerva – poco fuori dalle mura, infuse speranza ai compagni rimasti senza nome. “Disse loro che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e a onta degli sforzi de’ carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati”. Uno dei boia gettò la scimitarra, non poteva credere ai suoi occhi: dinanzi agli sforzi per staccare quella testa, Primaldo restava ritto in piedi. “Confessò la fede cattolica essere vera, e insisteva di farsi cristiano”, raccontò uno dei quattro testimoni oculari. Il boia fu condannato all’impalamento.
Cinquecento anni dopo, nel 1980, sul colle della Minerva salì Giovanni Paolo II che ricordò “l’eroica testimonianza delle centinaia e centinaia di figli di codesta terra generosa, i quali, incitati e preceduti dall’esempio mirabile del beato Antonio Primaldo, caddero a uno a uno per tener fede alla fede”. “Ci ha fatto venire oggi qui a Otranto il ricordo dei martiri. Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall’inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo”. E, ancora, “la sostanza del martirio è legata, dall’inizio e nel corso di tutti i secoli, con questo nome! Noi qualifichiamo come martiri quei cristiani che, nel corso della storia, hanno subìto sofferenze, spesso terrificanti, per la loro crudeltà “in odium fidei”. Coloro ai quali in odium fidei veniva infine inflitta la morte. Quindi coloro che accettando, in questo mondo, le sofferenze e subendo la morte hanno reso una particolare testimonianza a Cristo”. Ma lo sguardo doveva andare ben oltre le mura di Otranto, avvertiva profeticamente Giovanni Paolo II: “I martiri di Cristo – quelli delle prime generazioni, quelli della cosiddetta età media o dell’inizio dell’età moderna, come quelli dei nostri tempi – offrono, infatti, un esempio che equivale a un permanente e universale messaggio per la Chiesa e per il mondo. Non è forse vero che il martirio s’impone di per se stesso, per le virtù che presuppone ed esprime? Non è forse vero che il Sacrificio, spinto fino alla perdita della vita, ha un suo proprio linguaggio, il quale trascende l’epoca, in cui è compiuto, e si rende intelligibile in tutti i tempi?”.
La storia è maestra di vita, lo dicevano gli antichi, ma che non si tratti di mera frase di rito lo ha dimostrato lo scorrere incessante dei secoli. Anche allora, la leadership continentale del tempo si perdeva in disquisizioni sottili quanto futili sul peso d’ogni singolo stato in questo o quel dossier, le beghe tra vicini erano all’ordine del giorno, il Papa inviava moniti e suppliche e intanto i turchi cingevano d’assedio le isole del Mediterraneo e puntavano le prue dell’imponente flotta verso l’Adriatico. Dopotutto, Maometto II sognava di fare della basilica di San Pietro una lussuosa stalla per i suoi cavalli. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. La massima di Tito Livio è sempre valida.
Lo sapeva bene anche Marcantonio Bragadin, il veneziano nominato dal Senato capitano del Regno di Cipro che nel 1570 dovette affrontare da solo l’assedio a Famagosta da parte dei turchi. Nicosia era caduta subito, il luogotenente Niccolò Dandolo fu decapitato e la sua testa inviata a Bragadin affinché s’arrendesse. Lui respinse ogni richiesta di capitolazione, convinto che prima o poi dalla madrepatria sarebbero giunti gli aiuti necessari a sbaragliare il nemico. Così non accadde. Tutto meno che la resa era il suo orizzonte. Piuttosto, scrisse Alessandro Podacataro, “havrebbe tolto il Crucifisso in mano, et sarebbe uscito in campagna, rendendosi sicuro che, da soldati di valor et honore havrebbe havuto seguito, et così gloriosamente havriano finito le miserie et la vita, acquistandosi il regno del cielo”. Alla fine, il 19 luglio, capì che la sorte era segnata. Decise di arrendersi, anche perché così gli avevano imposto i comandi militari, convinti che con una buona sfilata nell’accampamento nemico, una resa onorevole e una rapida partenza dall’isola, il danno sarebbe stato contenuto. I turchi garantirono l’incolumità a lui e alla milizia. Così, il 5 agosto, Bragadin e i suoi ufficiali si recarono al campo ottomano per consegnare le chiavi della città. Mustafà Pascià, che l’attendeva, stracciò l’accordo, fece legare i veneziani. A Bragadin furono mozzati naso e orecchie, quindi fatto camminare con un cesto di sassi e sabbia sulle spalle. Di seguito, appeso per ore al pennone d’una galera, fu frustato, prima di essere rinchiuso in una gabbia esposta al sole, con poca acqua. La pena, che si protraeva già da giorni, non era conclusa. Trascinato a colpi di bastone sulla piazza di Famagosta, gli aguzzini lo legarono alla colonna dei supplizi e lì cominciarono a scorticarlo vivo. Il capitano, narrarono i testimoni oculari, per tutto il tempo recitò il Miserere, invocando il nome di Cristo. Morì prima che l’opera del boia finisse. La pelle fu impagliata, rivestita delle insegne del comando, fatta sfilare per Famagosta e inviata a Costantinopoli come trofeo.
Pratica antica, quella dei trofei recapitati agli sconfitti o esibiti dinanzi alle folle esultanti. Macabro rituale anche dell’epoca presente, però, come dimostrano le mattanze che da qualche anno il web rilancia dalle strade siriane e irachene finite sotto il controllo della barbarie jihadista. Vent’anni fa, in Algeria, il copione fu assai simile. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, il monastero trappisti di Notre-Dame de l’Atlas, a Tibhirine, vide l’irruzione di venti uomini del Gia, il Gruppo islamico armato. Sette monaci francesi furono sequestrati. Il 21 maggio, l’annuncio: “Abbiamo tagliato loro la gola”. Nove giorni dopo, poco lontano, furono ritrovate le teste mozzate. In sacchi di plastica neri. Alcune appese ai rami d’un albero, altre accatastate sul terreno. Dei corpi non si seppe più nulla.
Qualche anno fa, in un’intervista al Figaro, uno dei due superstiti, frère Jean-Pierre, ricordò quell’eccidio scacciando ogni ombra di dolore e morte: “Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso”, disse quando un confratello sconvolto e in lacrime si recò da lui a riferirgli i dettagli del macabro ritrovamento. Il fatto è che “li abbiamo visti subito come martiri”. Per Tibhirine fu la fine: cinque anni dopo, i trappisti decisero di chiudere tutto, di andarsene dall’Algeria e di trasferire i sopravvissuti in Marocco.
“Il martire cristiano, come Cristo e mediante l’unione con lui, accetta nel suo intimo la croce, la morte e la trasforma in un’azione d’amore”, osservò Benedetto XVI nell’Angelus di santo Stefano, il 26 dicembre del 2007. “Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto d’amore che si dona totalmente. La violenza così si trasforma in amore e quindi la morte in vita”. “Bisogna sempre rimarcare questa caratteristica distintiva del martirio cristiano: esso è esclusivamente un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori”, aggiunse Ratzinger. “A volte si soffre e si muore anche per la comunione con la Chiesa universale e la fedeltà al Papa”, chiosò il Pontefice oggi emerito. Una chiesa di martiri, disse Francesco un anno fa, parlando a Santa Marta, “quanti Stefano ci sono nel mondo! Pensiamo ai nostri fratelli sgozzati sulla spiaggia della Libia; pensiamo a quel ragazzino bruciato vivo dai compagni perché cristiano; pensiamo a quei migranti che in alto mare sono buttati in mare dagli altri perché cristiani; pensiamo a quegli etiopi, assassinati perché cristiani. E ancora tanti altri che noi non conosciamo, che soffrono nelle carceri perché cristiani”. Paolo VI, quarant’anni prima, invitava a riscoprire il Martirologio, che “dovrebbe ritornare a essere un libro di moda nella Chiesa”. E’ il martire, sottolineava Montini, “che mette in estrema evidenza la verità, che Cristo ci ha portato; è il martire che afferma l’amore nella sua suprema misura: il sacrificio. Tanta è la spirituale grandezza del martire ch’essa si trasforma in bellezza, e genera in chi la comprende questo a noi quasi inconcepibile affetto: il desiderio del martirio”.
Il cristianesimo non è utopia