Il discrimine tra martirio e atto di violenza inizia a tormentare la chiesa
Roma. Austen Ivereigh, autorevole giornalista britannico nonché biografo papale, ha scritto che l’assassinio di padre Jacques Hamel, il sacerdote francese trucidato in chiesa mentre diceva messa, non è più simbolico di tanti altri delitti. “Lo sgozzamento di un prete da parte di un militante dell’Isis non è molto più significativo dell’atto compiuto contro i vignettisti di Charlie Hebdo a Parigi o contro i bambini nizzardi sulla Promenade des Anglais. E’ lo stesso atto, un atto di odio banale, banale come sempre è il male”. A giudizio di Ivereigh, l’uccisione del vegliardo padre Jacques è “un atto di violenza assurda”, che poi è quanto ha detto il Papa attraverso i comunicati prontamente diffusi dal Vaticano non appena la dinamica dei fatti di Saint-Etienne-du-Rouvray era stata acclarata. Ed è proprio questo il punto dirimente, ha scritto Julia Yost su First Things, la celebre rivista cattolica americana: è stato solo un atto di violenza assurda o invece s’è trattato d’un martirio? Paul Vallely, sul New York Times, non aveva dubbi quando suggeriva di “lasciare il martirio ai jihadisti”. Niente da dire sul rituale macabro e ancestrale che ha portato alla morte del sacerdote di Rouen, ma opposizione netta “all’impulso di canonizzare padre Hamel” sull’onda dell’emozione.
Il problema, argomentava Vallely, “è che padre Hamel può essere un martire agli occhi della chiesa, ma anche i suoi assassini sono martiri agli occhi dei jihadisti”. Farlo santo subito, insomma, darebbe l’impressione della “ritorsione, il nostro martire per i vostri, che concederebbe ai jihadisti la guerra di religione che essi cercano”. Julia Yost (che di First Things è associate editor) è perplessa: intanto, ha scritto, “uno potrebbe obiettare che dichiarare Hamel un martire non significa dichiarare una guerra di religione, bensì si tratterebbe di venerare un testimone pacifico e umile” e poi si dovrebbe distinguere tra il martire pura vittima e gli altri assassini. E’ una linea sottile quella che divide la violenza assurda e il martirio, delicata e controversa. Francesco, che di guerre di religione non vuol sentir parlare, più volte invece ha ricordato i martiri d’oggi, che sarebbero “di più ora che nella chiesa dei primi secoli”. Addirittura quando, poco più d’un mese fa, gli era stato chiesto un commento sul genocidio dei cristiani nel vicino oriente, il Pontefice aveva detto che “lì è in atto una persecuzione, un martirio, e dunque si deve parlare di sacrificio della vita per ragioni di fede”.
Se prima, anche tra le alte gerarchie ecclesiastiche, si rifiutava l’identificazione dell’islamismo (non dell’islam, ma della sua degenerazione politica) con il terrorismo, ora si inizia a ritenere poco prudente anche iscrivere al catalogo dei martiri chi, morendo ai piedi dell’altare di una chiesa a due passi dalla gloriosa cattedrale di Rouen immortalata da Monet e imperitura memoria, ha urlato a Satana di andarsene da quel luogo sacro. Diplomazia e buon senso, si dirà. Strategia per non fare il gioco dei terroristi, ammesso che davvero i macellai di Nizza e Parigi, di Saint-Etienne-du-Rouvray, siano in qualche modo interessati alle disquisizioni semantiche che il politicamente corretto intra-ecclesiastico rischia di far precepitare in distinguo fin troppo sottili. “E’ comprensibile che quando il Papa parla di violenza islamica debba parlare anche di violenza cristiana”, ha scritto sul Catholic Herald padre Alexander Lucie-Smith: “E’ preoccupato dall’idea della ritorsione. Ci si augurerebbe, però, che ne parlasse senza indicare la malafede dei membri fedeli della sua chiesa”.
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