E' sempre colpa dell'uomo bianco?
L’odio di sé avanza in tutto l’occidente sotto attacco. Ripubblichiamo alcuni stralci del libro dell’intellettuale francese Pascal Bruckner “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, pubblicato nel 1984 (Guanda). Istruzioni per l’uso contro le nuove prosternazioni
A priori pesa su tutto l’occidente una presunzione di delitto. Noi europei siamo stati allevati nell’odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un male congenito che reclamava vendetta senza speranza di remissione. Questo male può riassumersi in due parole, il colonialismo e l’imperialismo, e in poche cifre: le decine di milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i duecento milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori. Nascere dopo la Seconda guerra mondiale, significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell’umanità, a un ambiente esecrabile che, da secoli, in nome di una pretesa avventura spirituale, opprime la quasi totalità del globo. Un continente che non finiva mai di parlare dell’uomo mentre lo massacrava in tutti gli angoli del pianeta, un continente basato sul saccheggio e sulla negazione della vita, meritava soltanto d’essere a sua volta calpestato. Il mondo intero accusa l’occidente, e molti occidentali partecipano a questa campagna: la nostra responsabilità viene affermata con indignazione, con disprezzo. Nessun discorso sul Terzo mondo può concludersi o cominciare senza che riecheggi questo leitmotiv: l’uomo bianco è malvagio.
Che cosa ci rimane, a noi figli e nipoti dei barbari che hanno depredato terra e mare? Fare sempre e dappertutto il nostro atto di contrizione. “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti, per tutto e dappertutto, e io più degli altri” (Dostoevskij), tale è la nostra più intima convinzione. Il sangue versato ricade su di noi e nulla, ci sembra, può riscattare l’infamia commessa, nessun compenso ristabilire l’equilibrio rotto dall’offesa coloniale. Tutti i nostri titoli di gloria, secoli di sforzi, di calcoli, di perfezionamenti, di imprese, di eroismo, che avevano fatto regnare una certa forma di saggezza umana, sono stati spazzati via, ridotti a zero: sapere che questa fioritura artistica o tecnica era legata a una egual dose d’ignominia, ci ha scoraggiati dall’accettarla o dal riprenderla. Così la svalutazione del messaggio europeo è diventata un codice comune a tutta l’intellighenzia di sinistra dopo la guerra, proprio come l’odio del borghese è stato in Europa, dopo il 1917, un autentico passaporto intellettuale, quando nessun articolo poteva giustificarsi senza un’invocazione rituale al proletariato messianico e un ostentato disgusto per i possidenti. L’indipendenza delle antiche colonie ci lascia tuttavia una possibilità di riscatto: impegnarci a fianco dei popoli in lotta, aiutare sempre e dappertutto il sud a distruggere il vitello d’oro occidentale.
Così la nascita del Terzo mondo come forza politica ha generato una nuova categoria: il militantismo espiatorio. In che modo l’odio di sé sia divenuto il dogma centrale della nostra cultura, è un enigma di cui la storia d’Europa è feconda. E’ strano infatti che nel secolo dell’ateismo militante, pensatori agnostici che hanno aguzzato il loro ingegno nella lotta contro le chiese e le loro dottrine ci abbiano riconciliati d’altra parte con la nozione che è alla base stessa del cristianesimo: il peccato originale. Mentre nei costumi e nel pensiero si verificava un formidabile rivolgimento dei valori – il rifiuto delle immagini di autorità, lo smantellamento degli idoli e dei tabù – , la morte di Dio e del Padre si univa – Sartre ne è l’esempio magistrale – a un rafforzamento della cattiva coscienza, come se una società che aveva eliminato perfino l’idea del peccato preparasse la via regia al senso di una colpevolezza generale. Il quale costituisce il prezzo da pagare per appartenere all’Europa vittoriosa, che per un momento ha trionfato sul resto del mondo. Perché la politica moderna ha cessato senza dubbio d’ispirarsi al cristianesimo, ma le sue passioni sono quelle del cristianesimo. Viviamo in un universo politico impregnato di religiosità, ebbro di martirologia, affascinato dalla sofferenza, e i discorsi più laici sono, quasi sempre, soltanto la ripresa o il balbettamento in tono minore delle omelie ecclesiali. Che una tale brama di “dolorismo”, che un tal gusto per la figura dell’oppresso in genere possano coesistere con un anticlericalismo ancora virulento non è, quindi, che un paradosso secondario
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Il terzomondismo accredita una visione manichea, la quale vorrebbe che il peccato degli uni testimoniasse indefinitamente a favore della grazia e della virtù degli altri. La povertà spirituale di certi movimenti di liberazione, gli slogan più sommari dei loro capi sono quindi gonfiati a dismisura come altrettante parole del Vangelo, mentre il rigore intellettuale, la logica, l’educazione, monopolio dei paesi ricchi, sono respinti come diabolici stratagemmi dell’imperialismo. Le più insignificanti insurrezioni, le più trascurabili rivolte contadine, hanno diritto a una risonanza enorme, sproporzionata in rapporto alla loro importanza reale; si santifica l’ignoranza, il settarismo dei capibanda tropicali, si glorifica la marcia degli splendidi asiatici chiamati a distruggere la civiltà europea, insomma le più grandi follie sono portate alle stelle da alcuni spiriti eletti, ben felici di sottomettersi a un’autorità primitiva, di prosternarsi “davanti allo splendore d’una sana barbarie. Secondo questo principio, tutto ciò che innalza, loda, celebra l’occidente è sospettato delle peggiori infamie; in compenso, la modestia, l’umiltà, il gusto dell’autodistruzione, ciò che può spingere gli europei a eclissarsi, a rientrare nei ranghi, è onorato, salutato come altamente progressista. La regola aurea di questo masochismo è semplice: ciò che viene da noi è cattivo, ciò che viene da altri è perfetto. Insomma, si concede sistematicamente un premio di eccellenza agli ex colonizzati. Ama i tuoi nemici: mai la nostra epoca miscredente, negli anni Settanta, ha seguito così fedelmente la parola del Cristo.
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La religione della simpatia compassionevole che dimostriamo a gara verso tutto ciò che vive, soffre e sente, dal contadino del Sahel al cucciolo di foca, passando per il prigioniero di Amnesty International e gli animali da pelliccia, scuoiati per scaldare le spalle delle nostre elegantone. L’esaltazione degli istinti di benevolenza, “oralità istintiva che non ha cervello ma sembra esser composta solo da un cuore e da mani soccorrevoli” (Nietzsche), queste lodi cantate giorno e notte dai media, dalla stampa, dagli uomini politici, dalle personalità letterarie o artistiche, affondano direttamente le loro radici nel cristianesimo più imbastardito. Questa religione per afflitti dice che bisogna patire la vita come una malattia. Finché ci saranno uomini che rantolano, bambini che soffrono la fame, finché le prigioni saranno piene, nessuno avrà il diritto di essere felice. Si tratta di un imperativo categorico che c’impone il dovere di amare l’uomo impersonale, e, di preferenza, l’uomo lontano. Proprio come Gesù diceva che i poveri sono i nostri maestri, i terzomondisti fanno della miseria dei paesi meridionali una virtù da prendere a modello. Si amano i tropici per le loro pecche e le loro lacune, la carestia e il male sono al tempo stesso sottilmente combattuti e valorizzati; è un’ambiguità temibile da cui la chiesa cattolica non è mai uscita, ma che contamina allo stesso modo tutte le organizzazioni assistenziali nel Terzo mondo.
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Come non sentirsi giudicati sul metro di un martirologio sublime, non sentirsi ignobili e nocivi di fronte a questo grande tribunale della tragedia, che celebra i suoi fasti nell’angusto perimetro dell’apparecchio televisivo o della colonna di giornale? Un Golgotha di sofferenze ci contempla, noi siamo i complici diretti di un sistema economico che saccheggia le risorse dei più sprovveduti. Davanti a questi crimini, ogni spettatore deve dirsi: “Goebbels, sono io!”. Per convincere i cuori reticenti, i media non indietreggeranno davanti a nulla: all’enormità dell’accusa – siete peggio dei nazisti! – si aggiunge l’enormità di quanto viene mostrato. Nessun pudore trattiene la cinepresa; l’orrore non tollera censura, ogni immagine deve avere la sconvenienza di un limite varcato nell’angoscia. Si fa appello all’inaudito, al mai visto, e anzi ve ne fanno vedere anche un po’ di più. Carestie, inondazioni, terremoti vengono riprodotti all’istante per le cineprese: catastrofi fissate su Polaroid. Una catena ininterrotta di immagini va da quelli che mettono in scena la morte degli altri al pubblico del mondo intero, e questa catena dà a tutti il diritto di vedere tutto. Ma favorendo una soltanto delle nostre pulsioni: il voyeurismo. E poiché ci si immagina che, per scuotere gli animi, occorre uno spettacolo sempre più crudo, si aprono all’avidità dello sguardo territori in cui nessuno era penetrato, si punta l’obiettivo su mutilazioni, torture, malattie ancora inedite sullo schermo. La semplice vista di bambini dal ventre gonfio non vi basta? Vi mostreranno questi stessi bambini ridotti a scheletri. Ancora nessuna reazione? Eccoli ridotti a un mucchietto d’ossa e di pelle. Ecco sangue, ferite, ulcere purulente, croste di pus, viscere traboccanti, organi strappati…
Solo la dismisura è in grado di commuovere il pubblico e di interessarlo a questi problemi. E se l’apatia persiste, vuol dire che, così si crede, le immagini non sono abbastanza spettacolari: quindi non vi saranno limiti all’asta degli orrori. Così si produce l’inevitabile perversione dello sguardo: prendiamo gusto al gioco, ne vogliamo sempre di più, la nostra soglia di tolleranza non cessa di aumentare; non chiediamo più di essere commossi, ma sorpresi: ogni volta ci occorre qualcosa di più piccante nell’abiezione. Il valore d’urto di un’informazione è indipendente dalla verità dei suoi termini. L’improbabile, l’enorme saranno considerati sempre meglio del verosimile. Conta solo l’impatto e non l’influenza. Non ci preoccupiamo più di sapere se quelle foto riguardano esseri reali, le vogliamo soltanto più speziate. E vinca la peggiore.
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Nella storia biblica della cacciata dal paradiso terrestre, c’erano quattro personaggi: l’uomo tentato, la femmina tentatrice, l’animale tentatore e la cosa tentante. Più due mediazioni: dal serpente alla donna, poi dalla donna ambasciatrice del peccato all’uomo. Storia semplice, rispetto ai molteplici travestimenti che l’occidente utilizza per circuire e sedurre il casto Terzo mondo: il male europeo è multiforme, di volta in volta pornografia, rock, gadget, jeans, droghe, bevande gassate, tecnologia, turismo, denaro: Satana è legione, ha cento maschere, cento travestimenti per sedurre l’oasi primaverile. Da qui la sfumatura d’indefinibile rimpianto con cui accogliamo la normalissima maturazione delle nazioni che entrano nel ciclo delle prove d’iniziazione alla vita politica; da qui anche la nostra collera contro il sacrilego corruttore, il mondo industrializzato, che affretta l’evoluzione smaliziando prematuramente l’umanità innocente.
Così, per spiegare i disastri, la repressione, la corruzione, il nepotismo, la stagnazione che imperversano nell’emisfero sud, si ricorre a questo concetto magico fra tutti: il neo colonialismo. Poiché l’Europa ha lasciato i suoi possedimenti solo per installarvisi meglio, tocca a lei assumersi gli errori e gli sbagli che vi si commettono. Mirabile cortocircuito: di nuovo, il presente non è che un duplicato del passato, e l’antica invettiva può avere libero corso: nelle prigioni iraniane, siriane, algerine si pratica la tortura? E perché i loro agenti “sono gli allievi dei nostri poliziotti” (Claude Bourdet). Lo sciismo s’irrigidisce in un fondamentalismo oscurantista? E’ perché “le ‘soluzioni’ dell’occidente hanno fatto fallimento” e condannano certi paesi all’integralismo (Roger Garaudy). La miseria avanza a grandi passi: naturalmente, a causa delle multinazionali e del loro svergognato saccheggio. Sempre per spiegare l’analfabetismo, le epidemie, le guerre, la decadenza del tenore di vita, il dispotismo dei nuovi padri del popolo, si invocano i colonialisti francesi, gli imperialisti americani, i dominatori inglesi, gli affaristi olandesi, tedeschi o svizzeri, perché in tutto il globo ci sono soltanto due tipi di paesi: i “paesi malati” e i “paesi ingannati” (Roger Garaudy). Insomma, invece di tener conto dei fatti, di cercare le cause determinanti, si prediligono le cause remote che esonerano da ogni responsabilità gli stati tropicali: istigatore universale, il neocolonialismo diventa così il mezzo per accantonare in perpetuo i veri problemi.
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Laggiù, in Francia, nello stesso momento in cui innaffiavate le piante o sorseggiavate un caffè, la televisione vi mostrava bambini dilaniati dalle mine, oppositori politici torturati, profughi ammassati sulle giunche che affondavano con tutti i loro beni, vittime di una tempesta o dei pirati che li colavano a picco dopo averli taglieggiati. Potevate credere che fosse una finzione, e bastava premere un bottone per far cessare quelle scene d’incubo. Ma qui, la miseria impregna i muri, l’aria che si respira, l’orizzonte che si abbraccia, forma la sostanza stessa della città. Gli alberghi più lussuosi, le ville meglio custodite sono cittadelle dotate di un privilegio transitorio, circondate dalla sporcizia e dall’infelicità. E, ogni momento, vi aspettate di vedere la porta della vostra camera aprirsi per lasciar passare una teoria di sciancati, di straccioni famelici, di donne miserabili, pronti a occupare lo spazio che la vostra prosperità vi attribuisce indebitamente.