Benedetto XVI, l'ortodosso ribelle
E’ un ribelle. Nel fondo della sua anima Joseph Ratzinger è un ribelle e un innovatore. Il camminatore bavarese dai tratti miti, dai modi riservati e dai toni sommessi, il teologo tedesco che si è presto innamorato della vita romana, che ne ha subito apprezzata e adottata la pratica della pennichella, il “cristiano del tutto normale”, dalla fede salda respirata in famiglia sin dall’infanzia, che non ha mai lavorato di notte usandola sempre per ciò per cui Dio l’ha fatta: dormire (anche la notte prima dell’intronazione, e perfino quella prima della sua rinuncia al pontificato). Quest’uomo è uno spirito controcorrente.
Benedetto XVI – a dispetto del riflesso pubblico della sua immagine, del ritratto costruitogli dai media e dai non pochi detrattori che ne hanno fatto coincidere l’identità con il ruolo (custode della dottrina della fede, difensore dell’ortodossia, “cane da guardia” del papa) o con i tratti educati e fini del suo mostrarsi al mondo – è, nel suo nocciolo più duro, un essere indocile.
E, per uno che volesse con la ragione risalire alle origini della fede, scopo dichiarato della sua vocazione e della sua missione – “Fede e ragione sono i valori in cui ho riconosciuto la mia missione (p. 22) – non poteva essere diversamente. C’era un fiume da risalire, andando controcorrente.
Tanto ricavo dalla lettura (notturna, me ne scuso) del suo libro intervista con Peter Seewald, “Ultime conversazioni” (Garzanti). Non per un mio particolare intuito, ma dalle sue stesse parole: c’è in me “la voglia di contraddire” (63), tanto da arrivare sino all’uso di un “tono insolente” nelle discussioni pre-conciliari (129).
In quest’ottica si capisce meglio il suo amore per sant’Agostino e per la sua concezione drammatica della vita come lotta per la verità della fede “anche dopo la conversione, ed è questo che rende la sua esperienza tanto bella e drammatica” (84).
Non ci faccia velo la sua confessata timidezza e l’ingenerosa autodefinizione di uomo con “assenza di carisma” (174), l’affascinante ortodossia di Joseph Ratzinger è dovuta alla sua inquietudine, al suo amore mai soddisfatto per la perenne novità della verità. “Non volevo muovermi nell’ambito di una filosofia stantia, già bell’e pronta ed etichettata, ma intenderla come una domanda – che cosa siamo veramente? – e soprattutto conoscere la filosofia moderna. In questo senso ero moderno e critico” (81) e per questo apprezzava Theodor Steinbüchel. “Eravamo progressisti, volevamo rinnovare la teologia e con essa la Chiesa, rendendola più viva” (83).
Il primo teologo che lo affascinò fu Gottlieb Söhngen soprattutto perché “affrontava i problemi” e perché “non si accontentava di una costruzione accademica autosufficiente, ma si domandava: come stanno veramente le cose? (86). E come stanno veramente le cose accettava di impararlo da Herman Hesse di cui lo avvinceva “l’analisi spietata della disgregazione dell’Io” tratteggiata ne “Il lupo nella steppa”, libro cult degli hippie di San Francisco, “che rispecchia quanto sta accadendo oggi all’uomo” (101).
Uno spirito ribelle, dunque, che non fece mai gesti aperti di ribellione – di cui si può dire anzi che il progressismo riformatore è dovuto all’obbedienza – ma che non fece neanche atti di supina accettazione contrari alla netta coscienza di ciò per cui era al mondo.
Il saluto di Papa Francesco per il 65° di sacerdozio di Benedetto XVI (foto LaPresse)
Parlando del “dramma” della sua vita lo traduce in domande: “Mi chiedevo: devo diventare sacerdote o no? […] Perché sono qui? Che cosa mi sta succedendo? Chi sono io?” (83). Domande a cui si affianca a un certo punto una conoscenza certa: “Sapevo che Dio voleva qualcosa da me, che da me si aspettava qualcosa, e che questo qualcosa fosse legato al sacerdozio l’ho capito via via con sempre maggiore chiarezza” (90). Fu questa consapevolezza – insieme a quella che “le umiliazioni sono necessarie” – che gli permise di resistere (sino a un certo punto) ai suoi superiori, a partire dal vescovo di Monaco sino a Giovanni Paolo II. Con il cardinal Wendel si scontrò (Benedetto XVI parla di una “complicata corrispondenza”) sul permesso di insegnamento nell’università statale a cui era stato chiamato, non glielo voleva concedere. Si è opposto agli ordini del suo vescovo? chiede l’intervistatore. “Questo no, semplicemente non ho assecondato il suo desiderio iniziale”, che era quello di mandarlo a insegnare in una scuola di pedagogia. “Non [era] il mio carisma” (99).
E’ risaputo il suo primo “no” a Giovanni Paolo II che lo voleva accanto a sé a Roma, così come la sua obbedienza ai dinieghi di fronte alle sue richieste di rinuncia all’incarico – al terzo tentativo gli disse: “Non è necessario che lei scriva la lettera né che mi dica che vuole essere esonerato perché io la voglio con me fino alla fine” (166). Meno conosciuta è la condizione che pose al Papa polacco per accettare la nomina al Sant’Uffizio: “Posso accettare solo se mi sarà ancora permesso di pubblicare libri”. Non è un affronto al Papa porgli delle condizioni? “Forse. Ma io ritenevo fosse mio dovere farlo. Perché sentivo l’obbligo interiore di poter dire qualcosa all’umanità” (157).
Non stupisca questo newmaniano primato della coscienza, è lo stesso con il quale interpreterà in modo innovativo anche il suo pontificato, per la prima volta della storia un Papa ha scritto una trilogia su Gesù. Non ha riflettuto se fosse giusto che un Papa scriva libri?, chiede Seewald. “Sapevo semplicemente che io dovevo scriverli” (192).
L'ultimo Angelus di Papa Benedetto XVI (foto LaPresse)
Che cosa sia la coscienza per Benedetto XVI ce lo ha rivelato infine nel suo ultimo gesto da ribelle, nel grande atto che ha definitivamente riformato e rinnovato il papato con il suo semplice accadere: la rinuncia dell’11 febbraio 2013. E’ utile riandare al testo letterale di quell’annuncio in latino – “Una cosa così importante si fa in latino” (33): “Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata…”. La traduzione italiana non ha la forza di quell’“iterum atque iterum”, ripetutamente ho esaminato la mia coscienza davanti a Dio e sono giunto alla certezza… In questa frase – che nel libro ridice con tono meno solenne e più disteso: della rinuncia ne ha parlato con qualcuno? “Con il buon Dio in abbondanza” (33) – ho visto riassunto l’impegno fondamentale del professore, del teologo e del Pontefice: testimoniare e documentare all’uomo moderno che la fede consiste in un ragionevole assenso di fronte a una presenza, che questo atto libero e razionale dà consapevolezza del senso della vita, della realtà e della propria utilità storica. E che la certezza della coscienza non è un autoconvincimento ma nasce dall’ascolto. “La teologia è riflessione su ciò che Dio ha detto e pensato in precedenza per noi” (10).
La questione che Joseph Ratzinger da professore-teologo e Benedetto XVI da Papa ha voluto rimettere al centro della vita della Chiesa e all’attenzione del mondo è la fede: la sua presentabilità in una forma nuova e la sua accettabilità in un mondo che è profondamente mutato e del cui cambiamento epocale lui leggeva i segni già negli Cinquanta quando – facendo l’esperienza concreta del dualismo che vivevano i suoi primi allievi, attenti e cattolici in classe ma ispirati ad altri principi nella vita – scrisse “I nuovi pagani e la Chiesa”, articolo che gli valse in alcuni circoli la qualifica di eretico. Aveva tragicamente ragione. Il problema – ridice ora – non è la riforma delle istituzioni, le chiese vuote e la crisi delle vocazioni: il problema è la fede. E’ questa la chiave con cui leggere tutto il suo convincimento giovanile (ma non sono cambiato, dice a pagina 150, basta leggere i miei scritti) della necessità di un rinnovamento della Chiesa, il suo impegno nel Concilio e l’interpretazione che ne ha dato nell’ultimo grandioso discorso alla curia romana.
“Grandi cambiamenti? Di cosa si starebbe parlando? L’importante è preservare la fede oggi. Io considero questo il nostro compito centrale. Tutto il resto sono questioni amministrative” (207). E ancora: “E’ palese che i nostri princìpi non coincidono più con quelli della cultura moderna, che la struttura fondamentale cristiana non è più determinante. Oggi prevale una cultura positivista e agnostica che si mostra sempre più intollerante verso il cristianesimo. La società occidentale, quindi, in ogni caso in Europa, non sarà una società cristiana e, a maggior ragione, i credenti dovranno sforzarsi di continuare a plasmare e sostenere la coscienza dei valori e della vita. Sarà importante una testimonianza di fede più decisa delle singole comuni tà e Chiese locali. Avranno una maggiore responsabilità”.
“Riscoprire la centralità della fede” (217) è il compito dei cristiani a maggior ragione in un periodo di transizione – “Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo non è ancora incominciato” (218) – in cui “è evidente che la Chiesa sta abbandonando sempre più le vecchie strutture tradizionali della vita europea e quindi muta aspetto e in lei vivono nuove forme. E’ chiaro soprattutto che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi” (218).
Un papa troppo filosofo? Lui non osa definirsi tale, penso anche per umiltà, nella sua enciclica Spe salvi attribuì questa qualifica a Cristo stesso. “Un titolo molto provocatorio che in realtà libera Cristo dalla costrizione dei panni del moralista o del profeta escatologico, cui tanta esegesi vorrebbe costringerlo. Cristo è vero filosofo perché ci introduce, è la via al senso profondo della vita”, come sottolineò il professor Stefano Alberto in un’intervista al Foglio nel 2007. Benedetto precisa solo che ha tentato di “essere soprattutto un pastore”, che “professore e confessore hanno filologicamente quasi lo stesso significato” (221), e che lui come confessore era molto ricercato dai suoi studenti perché noto come “molto generoso” (95).
Ovviamente in questo libro c’è molto altro: ci sono i giudizi di un uomo che ha retto la Chiesa per otto anni sui potenti del mondo che ha incontrato (Obama, Putin, Fidel Castro, Shimon Peres, Napolitano…), il suo rapporto con Papa Wojtyla e la sua stima per Papa Francesco e la sua “riforma pratica”, le ricostruzioni degli scandali che hanno attraversato il suo pontificato, secche smentite a tanti retroscena fantasiosi di vaticanisti sedicenti informati, la citazione del volontariato del Meeting di Rimini come esempio di consapevolezza della fede contrapposto alla burocrazia mondanizzata delle strutture ecclesiastiche tedesche, Manuele II Paleologo vassallo dei musulmani e la sua “libertà di dire cose che oggi non si potrebbero più dire”, i suoi gusti pittorici, il fastidio per la moquette… Insomma, leggetelo.
E c’è un’ultima cosa: la risata di Benedetto XVI. La parola (Ride) compare cinquanta volte tra parentesi, una volta (Sorride) e una volta (Sorride soddisfatto).
Se mai Benedetto XVI dovesse leggere queste righe, non se ne abbia per l’azzardo del paragone.
“Lo dico con reverenza: c’era in questa irrompente personalità un lato che si potrebbe dire di riserbo: c’era qualche cosa che egli nascose a tutti gli uomini quando andò a pregare sulla montagna: qualche cosa che egli coprì costantemente con un brusco silenzio, con un impetuoso isolamento. Era qualche cosa di troppo grande perché Dio lo mostrasse a noi quando egli camminava sulla terra; e io qualche volta ho immaginato che fosse la sua allegrezza”.
Chesterton lo scrisse di Gesù in Ortodossia, io l’ho sempre pensato anche di Joseph Ratzinger.
Vangelo a portata di mano