Vescovi al referendum
Roma. Il cardinale Angelo Bagnasco, in uno dei suoi ultimi interventi ufficiali da presidente della Conferenza episcopale italiana (il secondo mandato scadrà nel 2017), ha parlato di referendum solo al termine della sua lunga prolusione tenuta lunedì davanti al Consiglio permanente riunito a Roma, nel quartier generale sull’Aurelia. Poche battute che non sono un’indicazione di voto – la Cei non lo fa più da tempo – ma che neppure forniscono un orientamento chiaro per i cattolici. “Il paese è atteso per un importante appuntamento, il referendum sulla Costituzione. Come sempre, quando i cittadini sono chiamati ad esprimersi esercitando la propria sovranità, il nostro invito è di informarsi personalmente, al fine di avere chiari tutti gli elementi di giudizio circa la posta in gioco e le sue durature conseguenze”. Non una parola di più. Se la volontà di escludere ogni tipo di ingerenza – vuoi per dettami papali, vuoi perché quell’epoca è finita – è una delle ragioni che spiegano la posizione interlocutoria di Bagnasco, l’altra è che era impossibile dare una linea quando la base dei vescovi è divisa tra più anime incapaci – sul referendum – di trovare una mediazione. Da un lato ci sono coloro che tutto vogliono meno che la rottura (o comunque alimentare tensioni) con il governo, dall’altro è numeroso il gruppo dei pastori convinti che le ragioni espresse da tempo e pubblicamente da Massimo Gandolfini, leader del Family Day dello scorso gennaio al Circo Massimo, siano sacrosante e quindi degne d’essere perorate in ogni sede.
Ma c’è una terza pattuglia, minoritaria eppure non silenziosa, che la Costituzione non la vuole toccare, un po’ come l’Anpi o come – forse l’accostamento è più opportuno – con il fronte che ha sbandierato don Giuseppe Dossetti quale presunto sostenitore della causa del no al referendum (Pierluigi Castagnetti, che Dossetti l’ha conosciuto, ha scongiurato mesi fa di non sfruttare il nome dell’ispiratore del cattolicesimo politico italiano nella battaglia per la riforma varata dal governo Renzi). Di certo uno scontro con il governo la Cei non lo vuole ora che si appresta, nella primavera del prossimo anno, a eleggere i suoi nuovi vertici dopo il decennio di Bagnasco. Saranno le prime elezioni con il nuovo Statuto, e cioè con la terna di nomi votati dall’assemblea e proposta al Papa, che sarà libero di scegliere il presidente in quel lotto o di guardare altrove, come tante volte ha fatto in questo triennio di pontificato allorché si trattava di scegliere i vescovi per le varie sedi diocesane. Soprattutto, la maggioranza dei presuli italiani non vuole alimentare possibili dissidi con Palazzo Chigi, memore del logoramento che si ebbe solo un anno fa nel lungo iter del ddl Cirinnà sulle unioni civili, con interi mesi passati a discutere se e in che modo appoggiare iniziative di popolo contro il provvedimento che poi è divenuto legge, creando spaccature trasversali e rimpianti per i tempi passati in cui l’attivismo più o meno muscolare era la consuetudine.
Nessuna volontà di intromettersi anche perché non è passata inosservata la benedizione arrivata la scorsa primavera dalla Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti che va in stampa solo previo placet vaticano. In un lungo articolo firmato da padre Francesco Occhetta, infatti, si analizzavano i pro e i contro della riforma, accompagnando il lettore sulla via d’un discernimento che consentisse una scelta finale. La conclusione, però, era assai chiara: “Rispetto a tali punti di perplessità, va segnalato che una moderna cultura della ‘manutenzione costituzionale’, senza banalizzare l’importante scelta della revisione, non sacralizza tutte le soluzioni adottate e può comunque consentire, in caso di auspicabile successo del referendum, successive modifiche migliorative che tengano conto delle critiche più motivate”.
Editoriali
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