Da Bruxelles a Indianapolis, Francesco firma la svolta con il concistoro più liberal nella storia recente della chiesa
Roma. Più che sui nomi dei tredici futuri cardinali elettori e dei quattro ultraottantenni annunciati domenica dal Papa al termine dell’Angelus, è utile vedere quali sono le grandi diocesi rimaste a bocca asciutta. L’elenco è lungo: Los Angeles (la più grande diocesi cattolica americana), Cebu nelle Filippine, Salvador de Bahia in Brasile, Montréal, Sydney, Philadelphia, Barcellona, Toledo. Senza contare le italiane Torino, Venezia, Bologna e Palermo e la porpora mancata all’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk. Nulla di nuovo se si considera l’adagio ripetuto a ogni concistoro indetto da Francesco e cioè che la priorità sono le periferie geografiche, nell’intento di dare maggiore rappresentatività alle chiese lontane dal centro europeo e rimarcare il carattere universale del cattolicesimo. Ragionamento che però cade se si guarda alla scelta di Carlos Osoro Sierra e Jozef De Kesel, “nuovi” arcivescovi di Madrid e Bruxelles subito fatti cardinali in sedi che per tradizione e prassi sono da tempo immemore cardinalizie.
La differenza rispetto a quasi tutti gli altri casi citati sopra è che qui i pastori sono stati scelti direttamente da Francesco e rispecchiano il profilo del vescovo da lui tratteggiato. Non corrisponde alla realtà, poi, la spiegazione che dietro la decisione di non creare cardinali italiani – salvo l’ultraottantenne Renato Corti, vescovo emerito di Novara e uomo designato da Carlo Maria Martini a succedergli a Milano nei primi anni Duemila – vi sia l’esagerato numero di porporati italiani già presenti nel Collegio: nei concistori precedenti, la berretta è stata infatti consegnata ai vescovi di Perugia, Ancona e Agrigento, senza contare gli italiani attivi in curia. La scelta del Papa, mai come prima, è politica e imprime una svolta più liberal (per usare una categoria secolare) alle strutture della chiesa cattolica.
Lo si comprende bene scorrendo i nomi dei presuli americani “premiati”. Non Gomez, non Chaput (che pure era stato il padrone di casa all’Incontro mondiale delle famiglie, un anno fa, a Philadelphia), non Lori, arcivescovo di Baltimora. Ma mons. Blase Cupich – l’arcivescovo di Chicago che meglio d’ogni altro interpreta in terra americana il nuovo corso lontano dal conservatorismo muscolare che ha dominato per un trentennio e più attento alle dinamiche sociali – e mons. Joseph Tobin, pastore a Indianapolis che fu rispedito a casa da Roma, dove era da pochissimo tempo segretario della congregazione per i Religiosi, in quanto sostenitore della causa delle suore “ribelli” della Leadership conference of women religious finite sotto una duplice inchiesta vaticana.
Mons. Blase Cupich (immagine di Youtube)
Il terzo, pronosticabile, è mons. Kevin Joseph Farell, neoprefetto del dicastero per i Laici, la famiglia e la vita. Gomez sarebbe stato il primo cardinale ispanico degli Stati Uniti, Chaput il primo pellerossa, ma – ha scritto il vaticanista John Allen – entrambi “sono ampiamente percepiti come più conservatori, e quindi avrebbero rafforzato ciò che è già visto come una forte maggioranza conservatrice tra i cardinali americani”. Il metodo con cui ha operato il Papa nel valutare i futuri porporati è applicabile, allo stesso modo, all’Europa – sabato, intanto, è stato eletto presidente delle Conferenze episcopali del continente il cardinale Angelo Bagnasco, che avrà come vice il cardinale Vincent Nichols di Westminster e il polacco Stanislaw Gadecki – e cioè niente da fare per gli esponenti del fronte che più è legato al concetto delle guerre culturali, delle marce pro life, dell’uso della croce quasi fosse un “vessillo di lotte mondane” (discorso ai vescovi americani riuniti a Washington, settembre 2015), ma spazio agli interpreti fedeli dell’agenda proposta da Bergoglio e messa nero su bianco nella Evangelii Gaudium, l’esortazione del novembre 2013 che fa da programma di governo al pontificato corrente.
Mons. Kevin Joseph Farell (immagine di Youtube)
Mons. Carlos Osoro Sierra è soprannominato “il Francesco spagnolo”, mons. Jozef De Kesel è il delfino del cardinale Godfried Danneels, che voleva proprio De Kesel come suo successore già nel 2010, scontrandosi però con il rifiuto di Benedetto XVI, che gli preferì il conservatore André-Joseph Léonard, le cui dimissioni sono state accettate non appena raggiunta l’età canonica e che non si è visto riconoscere la porpora cardinalizia. C’è un altro elemento che rileva e che rappresenta una costante dei tre concistori bergogliani: nessuna porpora concessa ai patriarchi orientali, come dimostra anche la decisione di dare la berretta a mons. Mario Zenari (nunzio in Siria) e non, ad esempio, al titolare della sede di Baghdad, mar Raphaël I Sako.
Di certo, Francesco continua a prediligere le sedi diocesane piuttosto che i ruoli curiali. Anche stavolta, niente cardinalato per il presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, Rino Fisichella, per l’ex titolare del consiglio per la Famiglia, Vincenzo Paglia e per l’archivista e bibliotecario vaticano, mons. Jean-Louis Bruguès. Nessun “riconoscimento” neppure per l’ultimo presidente del Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali, mons. Claudio Maria Celli, il cui incarico è stato assorbito dal nuovo prefetto della Segreteria per le comunicazioni, Dario Edoardo Viganò. Con le creazioni cardinalizie annunciate domenica, il Collegio raggiunge quota 121 elettori, uno più del tetto fissato da Paolo VI, ma entro il 19 novembre usciranno dal novero dei votanti i cardinali Jaime Lucas Ortega y Alamino (arcivescovo emerito dell’Avana), Nicolás de Jesús López Rodríguez (emerito di Santo Domingo) ed Ennio Antonelli (presidente emerito del Pontificio consiglio per la famiglia). Cinquantaquattro elettori dall’Europa, diciassette dall’America settentrionale, tredici da quella meridionale, superata dagli asiatici (14) e dagli africani (15).
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