Padre Ibrahim Alsabagh: "Ad Aleppo stiamo ormai vivendo la nostra agonia"
Roma. Inizia dall’attualità, padre Ibrahim Alsabagh, parroco della cattedrale latina di Aleppo, il suo intervento nella gremita chiesa di San Francesco a Ripa (Roma). Accanto a lui, il nuovo custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, e Roberto Fontolan del Centro internazionale di Comunione e liberazione. L’occasione era la presentazione dell’ultimo libro di padre Ibrahim, Un istante prima dell’alba. Cronache di guerra e di speranza da Aleppo (Edizioni Terra Santa). “Negli ultimi giorni non funzionavano le linee telefoniche, non c’era connessione internet. Io, da qui, tentavo di mettermi in contatto con la nostra casa ad Aleppo. Ci sono riuscito solo stamattina. I bombardamenti sono continui, così come le sparatorie. Di notte non si dorme e i missili continuano a piovere incessantemente. Uno è caduto su una scuola, uccidendo sei ragazzi che si trovavano in un’aula. Due missili sono caduti anche nella nostra zona, quella occidentale della città controllata dall’esercito regolare di Bashar el Assad. E’ la zona dove vive tutta la comunità cristiana, qui abita più di un milione di persone. Dall’altra parte, invece, sono rimasti pochi. E’ la parte sotto il controllo delle milizie”, dice.
L’intensificarsi dei bombardamenti sul cuore cristiano di Aleppo è visibile nel numero dei feriti. “Anche alcuni dei nostri parrocchiani sono stati colpiti, ma non potevano essere curati subito. I medici ci hanno detto che sotto la pioggia dei missili è impossibili operare”. Nulla di nuovo, però. Il rischio è quello di abituarsi a una routine infernale: “Sono cose che ormai si ripetono in questa lunga agonia che stiamo vivendo. Appena per un po’ tacciono le armi, diciamo ‘ecco, ci siamo, c’è un accordo’. Se per due giorni i missili si fermano, la gente scende in strada, affolla le caffetterie. Ma poi tutto inesorabilmente ricomincia, con il risultato che le ferite diventano sempre più profonde.
La situazione è peggiorata, lo dicono i giornali e lo fanno percepire le immagini trasmesse dai media internazionali. “Da venticinque giorni siamo nel pieno della sofferenza. Sono falliti tutti i tentativi di dialogo, tra milizie e governo e a livello internazionale. Da venticinque giorni l’escalation di violenza è al massimo della potenza. Tante volte si pensa che ci si ammazzerà l’un l’altro finché ad Aleppo non resterà neanche l’ultimo civile. Abbiamo davanti ai nostri occhi la città martire di Homs, martoriata al punto da diventare solo un cumulo di macerie pressoché disabitato”. Siamo, ha detto ancora padre Ibrahim Alsabagh, “come davanti a una porta chiusa, una disperazione senza via d’uscita”.
In questa situazione, è normale e giusto cercare risposte. “Qual è la risposta a questo male, il più grande che la storia dell’uomo abbia mai conosciuto, come diceva san Giovanni Paolo II? Dobbiamo cercare la consolazione e non porci domande inutili, interrogandoci ad esempio su chi sia il principale colpevole. Sono cose che sappiamo”, osserva il frate francescano. “Noi come cristiani dobbiamo invece domandarci cosa voglia il Signore che noi facciamo. Al male bisogna rispondere con il bene, alla guerra con la pace, all’odio con la carità e il perdono. Ed è per questo che noi cerchiamo di costruire un’oasi in questa fornace ardente; uno spazio in cui ogni persona sofferente possa trovare non solo un goccio d’acqua potabile o medicine o un boccone per sfamarsi, ma anche consolazione. E’ questa la risposta che lentamente ha iniziato a maturare in noi".
"E’ una risposta – sottolinea – che fa prevalere la vita sulla morte. Da un ascolto semplice e attento, noi possiamo cogliere ogni giorno la presenza del Signore”. Anche con i missili che cadono e le sparatorie senza sosta. “E’ così che negli ultimi due anni sono nati progetti, di continuo, ora ne abbiamo attivi ben ventitré. Non possiamo aspettare, dobbiamo darci da fare”.
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