I vescovi americani pronti all'elezione del loro nuovo capo. I nomi in campo
Roma. Il primo commento è arrivato a metà mattina, poco dopo il discorso della vittoria di Donald Trump e con qualche stato ancora da assegnare. “Prima di tutto, prendiamo nota con rispetto della volontà espressa dal popolo americano, in questo esercizio di democrazia che mi dicono sia stato caratterizzato anche da una grande affluenza alle urne. E poi facciamo gli auguri al nuovo presidente, perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso”, ha detto il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, a proposito dell’esito elettorale negli Stati Uniti. “E assicuriamo anche la nostra preghiera, perché il Signore lo illumini e lo sostenga a servizio della sua patria, naturalmente, ma anche a servizio del benessere e della pace nel mondo”, ha aggiunto il prelato, dimostrando fin da subito la disponibilità a instaurare un normale e corretto rapporto diplomatico con Washington. Soprattutto, si tratta di parole che fermano sul nascere ogni possibile interpretazione dell’atteggiamento della Santa Sede riguardo il prossimo presidente americano, in particolare dopo le frasi dei mesi scorsi con cui il Papa – parlando in aereo con i giornalisti – definiva “non cristiano chi vuole solo muri”, riferendosi implicitamente proprio a Trump e ai suoi propositi di innalzare barriere al confine con il Messico. The Donald non sorvolò e rispose al Pontefice, aprendo un “caso” che sarebbe stato risolto solo dall’intervento dell’allora direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. In mezzo, tra il Vaticano e la Casa Bianca, c’è la Conferenza episcopale statunitense, che la prossima settimana si ritroverà a Baltimora per definire i piani strategici per il triennio 2016-2019 e, cosa più rilevante, per eleggere i nuovi vertici, essendo venuto a scadenza il mandato di mons. Joseph Kurtz.
E’ un appuntamento che inevitabilmente si intreccia con la svolta politica del paese, che dopo otto anni di Amministrazione democratica tornerà ad avere in Pennsylvania Avenue un presidente repubblicano. La chiesa americana ha cercato di mantenere, almeno ufficialmente, una posizione equidistante rispetto ai candidati in lizza. Dietro le quinte, però, la preferenza era per Donald Trump. Non tanto per il profilo del candidato, quanto per la piattaforma che sta alle sue spalle, teoricamente capace di far dimenticare i complessi (eufemismo) rapporti con l’Amministrazione liberal di Barack Obama circa la bioetica. Una linea di condotta, quella della conferenza episcopale, non semplice da mantenere nei mesi della campagna elettorale. Solo qualche settimana fa, proprio mons. Kurtz aveva invitato (senza fare nomi) i candidati ad assumere un atteggiamento più disponibile e meno aggressivo nei confronti degli immigrati e delle donne: “Il Vangelo è offerto a tutti, per sempre. Esso ci invita ad amare i nostri vicini e a vivere in pace l’uno con l’altro. Per questa ragione – aggiungeva – la verità di Cristo non è mai inaccessibile. Il Vangelo serve il bene comune, non le agende politiche”. Quanto alle donne, il capo dei vescovi americani aggiungeva che troppe cose “nel nostro discorso politico attuale hanno svilito le donne. Questo deve cambiare”. Per il resto, poco altro, anche perché era ben presente nella mente dei presuli d’oltreoceano l’invito papale – pronunciato nel settembre del 2015 nella cattedrale di San Matteo a Washington – ad abbandonare il “recinto delle paure” e a smetterla di “leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna”. Tradotto, meno battaglie a difesa di un fortino ormai sempre più sguarnito e più prossimità pastorale. Parole d’ordine che hanno trovato applicazione nella gran parte delle successive nomine episcopali effettuate a Roma, finalizzate a ridisegnare progressivamente la mappa della chiesa americana. Ne sono palese esempio le creazioni cardinalizie (appuntamento in San Pietro sabato 19 novembre) di mons. Blase Cupich, arcivescovo di Chicago, e di mons. Joseph Tobin, nuovo vescovo di Newark dopo il limbo a Indianapolis.
Le votazioni della prossima settimana, dunque, serviranno anche a valutare quanto l’agenda di Francesco sia stata recepita dall’episcopato americano. La lista dei candidati alla presidenza e alla vicepresidenza della conferenza episcopale, però, è dominata da rappresentanti di quella che Robert Royal, direttore di The Catholic Thing, ha definito “la linea di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI”. E anche quelli che non ne fanno parte (come mons. Thomas Wenski, vescovo di Miami e noto per la sua attenzione alla lotta contro il cambiamento climatico e il ciclo di catechesi sull’enciclica Laudato Si’) ha aggiunto al National Catholic Register, “sono comunque personalità davvero solide che si situano a metà tra il vecchio e il nuovo corso”. Nessuna fuga in avanti, dunque. Favorito, se non altro perché la prassi di eleggere il vicepresidente uscente è quasi sempre stata rispettata, è il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e tra i firmatari della celebre lettera inviata al Papa nelle giornate sinodali in cui si lamentavano preoccupazioni circa l’organizzazione dei lavori. Altri nomi forti sono quelli di mons. José Gomez, arcivescovo di Los Angeles (la più grande diocesi degli Stati Uniti) e mons. Charles Chaput (arcivescovo di Philadelphia e organizzatore dell’Incontro mondiale delle famiglie del 2015). Ben posizionati sono anche William Lori (arcivescovo di Baltimora) e Allen Vigneron (arcivescovo di Detroit). A segnare una svolta più in linea con l’orientamento di Francesco sarebbe invece mons. John Wester, arcivescovo di Santa Fe.