Così il referendum ha spaccato il già diviso voto cattolico
I vescovi chiedono calma, i movimenti non sono uniti, il mondo del Family Day si propone come rassemblement dei cattolici. Più utopia che realtà
Roma. Gettare acqua sul fuoco è il mantra che i vertici della Conferenza episcopale italiana ripetono dopo il referendum che domenica ha bocciato la riforma della Costituzione voluta dal governo. L’obiettivo prioritario è di portare calma, ricomponendo i cocci e sanando le fratture che pure sono emerse con forza nel campo cattolico. Non a caso, nel suo unico e stringato commento, il cardinale Angelo Bagnasco ha invocato “grande responsabilità, come sempre a tutte le parti e a tutti i livelli”, aggiungendo: “Cerchiamo di camminare insieme”. Mons. Nunzio Galantino, che della Cei è segretario generale, rilancia l’auspicio: “Non lo so se chiedo molto, ma veramente chiedo che un po’ tutti sotterrino l’ascia di guerra fatta di parole pesanti, fatta anche di espressioni tante volte al limite della volgarità”.
Chi di certo non ha usato i toni soft, ma ha rivendicato una vittoria elettorale completa, è stato Massimo Gandolfini, leader del Family Day e presidente del comitato “Difendiamo i nostri figli”. Renzi, ha scritto Gandolfini, “è stato punito dalla sua arroganza, quella stessa arroganza che lo ha portato a ignorare ogni confronto, anche informale, con il popolo del Family Day, che ha portato milioni di persone in piazza a distanza di pochi mesi nel 2015 e 2016, e a imporre due voti di fiducia per far approvare la legge sulle unioni civili”. Poco da dire nel merito della riforma, dall’abolizione del Cnel al nuovo Senato fino al sistema di rapporti tra lo stato e le regioni, e molto da rivendicare, invece, riguardo la battaglia campale dell’inverno scorso per scongiurare l’approvazione del ddl Cirinnà sulle unioni civili.
Gandolfini assicura che non si tratta di vendette postume, quanto di evitare una “deriva autoritaria” del premier che si sarebbe concretizzata con l’eliminazione del bicameralismo paritario. Che poi è il punto che aveva convinto le Acli a dire Sì alla riforma. “E’ una battaglia che abbiamo sempre sostenuto; cioè l’idea di un bicameralismo perfetto è ormai antiquata e tende a rallentare i processi legislativi”, diceva alla Radio Vaticana il presidente Roberto Rossini, che aggiungeva: “Con politiche attive in materie diverse, che possono essere diverse a seconda delle regioni, un riordino delle materie tra stato e regioni consentirebbe una maggiore centralizzazione, ci permetterebbe di fare anche una politica unica”.
Per la galassia del Family Day (variegata al suo interno) non era questo l’oggetto della contesa, bensì il rilancio di una battaglia per la riaffermazione di quei princìpi etici e non negoziabili (con tutte le sfumature che la definizione comporta) protagonisti di una stagione politica da molti considerata superata. L’intento di creare un rassemblement che rappresenti e rinvigorisca il cosiddetto “voto cattolico” (che decine di tornate elettorali hanno acclarato essere un’utopia) si scontra con la constatazione, matematica, che anche i grandi serbatoi di potenziali voti, e cioè i movimenti cattolici, sono disinteressati a partecipare a un’operazione destinata ad avere poco respiro – già Camillo Ruini diceva anni fa che “sono venute meno le premesse politiche dell’unità dei cattolici in un solo partito”. Oppure sono divisi al loro interno tra chi è più incline a sostenere una linea riformista e chi è ostile al “governo delle unioni civili”. Esecutivo (e premier) che hanno le loro responsabilità, come ha scritto l’Osservatore romano, secondo cui “è opinione condivisa che il voto sia diventato fatalmente un giudizio sull’operato del capo del governo. Lo stesso Renzi – si legge ancora – legando le sue sorti a quelle delle riforme istituzionali, ha finito col prestare il fianco a un attacco coalizzato alla sua leadership, che ha coinvolto anche parte dello stesso Partito democratico, di cui è segretario”. Chi va oltre è Avvenire, il quotidiano della Cei, che nell’editoriale firmato dal direttore Marco Tarquinio ha sottolineato come “nel paese è maturato un prevalente sentimento politico anti maggioritario”. Da qui l’esigenza di garantire una “ben proporzionata rappresentanza”.
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