Notiziola: Natale è una festa storica (pure la data), e parla della salvezza
Il senso di una celebrazione, ripasso anche per i cristiani
Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo”. Così recita il Credo. “Per noi uomini e per la nostra salvezza”: il Natale, questa festa che ogni anno assume la triste ritualità di un lavacro collettivo delle coscienze, ricoperta da una sempre più spessa coltre di sentimentalismo e di buonismo peloso a un tanto al chilo, ovviamente in chiave anti-consumistica che il Natale o è povero o non è, in realtà dice una cosa che a noi post moderni suona inaudita e scandalosa (e infatti l’abbiamo disinnescata), ovvero che abbiamo bisogno di essere salvati. Già le vedi le facce stupite. Salvati? E da cosa? Ancora con la vecchia storia dell’inferno e della dannazione eterna e dei diavoli che ci tormentano coi forconi? E in effetti, se uno guarda a certi dibattiti teologici o a certa omiletica, gli indizi che la salvezza sia scomparsa dai radar sono più d’uno. Al punto che ampi settori ecclesiali sembrano più interessati alla salvezza dell’economia che non all’economia della salvezza. Come se Cristo si fosse lasciato maciullare così, perché ciascuno viva come meglio puo’ sapendo che all’occorrenza, tranquilli, la chiesa che accompagna gli uomini e le donne del suo tempo nella loro fatica quotidiana, c’è e ci sarà sempre, o magari per un mondo più giusto (“i poveri li avrete sempre con voi”, do you remember?), più equo e solidale, con pari opportunità per tutti, più buono. O non piuttosto perché dopo la morte esiste qualcosa di veramente orribile, come reale possibilità per ogni uomo. Ma tant’è.
Come tanti altri fenomeni, anche la progressiva laicizzazione del Natale viene da lontano. In una straordinaria omelia del 25 dicembre 1978, l’allora card. Ratzinger aveva intravisto con estrema lucidità quello che stava succedendo e che sarebbe accaduto: “Oggi nella cristianità questi dogmi non contano più molto. Ci sembrano troppo grandi e troppo remoti per poter influenzare la nostra vita. E ignorarli o non prenderli troppo in considerazione, facendo del figlio di Dio più o meno il suo rappresentante, sembra essere quasi una specie di “trasgressione perdonabile” per i cristiani. Si adduce il pretesto che tutti questi concetti sono talmente lontani da noi che non riusciremmo mai a tradurli a parole in modo convincente e in fondo neppure a comprenderli. Inoltre ci siamo fatti un’idea tale della tolleranza e del pluralismo, che credere che la verità si sia effettivamente manifestata sembra essere una violazione della tolleranza. In questo modo, cancelliamo la verità. Non riconosciamo quel che di salvifico c’è nel Natale, che esso cioè dà la luce, che si è manifestata e si è rivelata a noi la via, che è veramente via perché è la verità. Se non riconosciamo che Dio si è fatto uomo non possiamo veramente festeggiare e custodire il Natale, con la sua gioia grande che si irradia oltre noi stessi.
Se questo fatto viene ignorato, molte cose possono funzionare anche a lungo, ma la chiesa comincia a spegnersi a partire dal suo cuore. E finirà per essere disprezzata e calpestata dagli uomini, proprio nel momento in cui crederà di essere diventata per essi accettabile. L’Incarnazione, ciò che il Natale celebra, dice esattamente questo: che la Verità si è manifestata nella persona di Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo. Quello stesso Gesù che non a caso disse “Io sono via verità e vita”, con buona pace di quella visione del dialogo oggi dilagante nella chiesa che esclude a priori ogni pretesa veritativa. E dire che basterebbero questi versetti di Luca per sgomberare il campo da ogni possibile equivoco: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12, 51-53). Parole che se da un lato non autorizzano ovviamente alcuna rilettura di Cristo a mo’ di un guerrafondaio, dall’altro neanche lasciano scampo a certo irenismo. Il motivo è semplice: checché ne dicano i suoi demolitori, in primis interni, la fede cattolica è per sua natura divisiva, altro che inclusiva.
E lo è perché la verità, a sua volta, è divisiva. Dal che la domanda: anche alla luce del Vaticano II che ha detto che “l’unica chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica”, la chiesa ritiene ancora di essere depositaria della verità? A partire da una verità spesso dimenticata o taciuta, ovvero la storicità del Natale. Secondo la vulgata corrente la festa del Natale era in origine un culto pagano, quello del Natale Solis Invicti, che cadendo al solstizio d’inverno celebrava la nascita del nuovo corso solare; solo in seguito la Chiesa avrebbe sostituito per motivi pastorali il culto pagano del sole nascente con la festa della nascita del nuovo sole dell’umanità, Gesù. In realtà, come documentò per primo il liturgista Tommaso Federici, che ne scrisse sull’Osservatore Romano alla vigilia di Natale del 1998, le cose stanno diversamente, ed è possibile affermare con precisione che Gesù nacque davvero un 25 dicembre.
La scoperta si deve soprattutto ai lavori di due specialisti, Annie Jaubert e Shemariahu Talmon. Se Gesù è nato un 25 dicembre, il concepimento deve essere avvenuto, ovviamente, 9 mesi prima. E non a caso il calendario cristiano pone al 25 marzo l’Annunciazione a Maria. Ma l’evangelista Luca dice anche che giusto sei mesi prima era stato concepito Giovanni Battista. Quel concepimento, che non viene ricordato nella chiesa d’occidente, le antiche chiese bizantine lo celebrano solennemente tra il 23 e il 25 settembre, appunto sei mesi prima dell’Annunciazione a Maria. Il Vangelo di Luca si apre con la storia di Zaccaria ed Elisabetta, ormai rassegnata alla sterilità. Da Luca sappiamo che Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abìa, e che quando ebbe l’apparizione “officiava nel turno della sua classe”.
Nell’antico Israele i sacerdoti erano divisi in 24 classi le quali, dandosi il turno con una cadenza fissa, prestavano servizio liturgico nel tempio per una settimana, due volte l’anno. Si sapeva anche che la classe di Zaccaria nell’elenco ufficiale era l’ottava, senza conoscere però quando cadevano i suoi turni di servizio. E qui entra in gioco una altro studioso, il professor Talmon, che lavorando sui testi esseni di Qumran e sul calendario del Libro dei Giubilei, è riuscito a precisare in quale ordine cronologico si susseguivano le 24 classi sacerdotali (l’articolo in cui Talmon dava ragione delle sue scoperte risale addirittura al 1958). Alla classe di Abìa toccava il servizio liturgico al Tempio due volte l’anno, ed una di quelle volte capitava proprio nell’ultima settimana di settembre. Le Chiese bizantine avevano dunque ragione a celebrare tra il 23 e il 25 settembre l’annuncio a Zaccaria.
Si aveva così un fondamento “storico” esterno all’ambito liturgico, biblico e patristico, di un’antichissima tradizione. Questa, in sintesi, la successione dei fatti, disposti su un arco temporale di 15 mesi: il 23 settembre l’annuncio a Zaccaria e il concepimento di Giovanni; il 25 marzo, sei mesi dopo, l’annuncio a Maria e il concepimento di Gesù; il 24 giugno, tre mesi dopo, la nascita di Giovanni; sei mesi dopo, il 25 dicembre, la nascita di Gesù. In conclusione: fissando in quel giorno la festa del Natale la chiesa non ha fatto una scelta arbitraria. Come scrisse Federici, “quando la chiesa celebra la nascita di Gesù nella terza decade di dicembre, attinge all’ininterrotta memoria delle prime comunità cristiane riguardo ai fatti evangelici e ai luoghi in cui accaddero…il 25 marzo e il 25 dicembre per l’annunciazione del Signore e per la sua nascita non furono arbitrarie, e non provengono da ideologie di riporto”. Il miglior modo per festeggiare il Natale è tornare a dire qualcosa di cattolico.
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