Il “sano realismo” che porterà all'intesa tra Pechino e la Santa Sede
Il cardinale John Tong Hon, arcivescovo di Hong Kong, annuncia l’accordo imminente sulla nomina dei vescovi: “Tra due mali scegliere il male minore”
Roma. Il governo cinese è pronto all’accordo con la Santa Sede per la nomina dei vescovi, dando così alla chiesa “una libertà essenziale anche se non una libertà completa”. A dirlo è direttamente il cardinale John Tong Hon, arcivescovo di Hong Kong. Lo scrive in una lunga lettera diffusa ai media internazionali in cui fa intendere che il passo da decenni atteso è ormai prossimo. Tong Hon è da sempre l’espressione dell’ala più dialogante e lontana dai riflettori, di quanti cioè sono disposti anche a dolorose rinunce pur di ottenere qualche risultato al tavolo del delicato e lungo negoziato. Dall’altra parte vi sono gli intransigenti, non disponibili ad accettare patti più simili ad appeasement che ad accordi risolutivi della controversia. Capofila di questi è il predecessore di Tong Hon, il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, che negli ultimi anni ha anche accusato il Vaticano di avere in qualche modo svenduto la causa dei cattolici cinesi perseguitati e costretti nelle catacombe.
L’arcivescovo capovolge il ragionamento. Questo patto, scrive, permette alla chiesa “di essere una chiesa cattolica nel senso vero del nome. Forse che la libertà della Santa Sede di nominare i vescovi non sia ‘vera libertà religiosa’? Forse che la chiesa cattolica in Cina, a cui condizioni politiche non permettono di godere temporaneamente di una libertà completa nei modi di diffondere la fede, di gestire istituzioni educative, di recuperare le proprie proprietà, debba attendere lunghi anni e la Santa Sede debba rinunciare a fare un accordo ora con Pechino?”.
Sottolinea il porporato che “se la chiesa rinuncia alla libertà essenziale di oggi, forse non le sarà concessa maggiore libertà, con il possibile risultato di perdere ogni libertà”. Da qui, la naturale conseguenza: “La scelta di fronte è anoi è la seguente, o abbracciare la libertà essenziale e diventare una chiesa cattolica non perfetta ma vera, o rinunciare alla libertà essenziale e poi, con nulla in mano, attendere nella speranza che un giorno, non si sa quando, si possa ottenere la libertà completa”. Insomma, è l’invocazione della politica dei piccoli passi da decenni di casa in Vaticano, in una logica che esclude il tutto o niente che porta ben poco lontano. Serve “sano realismo”, conclude Tong Hon, anche perché i princìpi morali della chiesa sono chiari: “Tra due mali, scegliere il male minore”.
L’accordo imminente prevede che il Papa sia “l’ultima e la più alta autorità nel nominare i vescovi. Se al Papa spetta l’ultima parola sulla dignità e idoneità di un candidato episcopale, l’elezione da parte di una data chiesa locale risulta solamente un modo di esprimere raccomandazioni della Conferenza episcopale locale”. Precisa Tong Hon che questa intesa risulterà sì “la chiave del processo e una pietra miliare del cammino verso la normalizzazione dei rapporti tra la Cina e il Vaticano, ma non è per nulla la meta finale”.
Anche perché i problemi restano. Uno su tutti: se il Pontefice è considerato “ultima e più alta autorità nel nominare i vescovi”, ciò stride con la constatazione che egli si troverebbe a valutare (solo in ultima istanza) la dignità e l’idoneità di un candidato, senza poter avere voce in capitolo sull’intero processo di selezione. Anche qui, serve realismo, si spiega da Hong Kong. Soprattutto perché sul tavolo del negoziato vi sono preoccupazioni diverse: “Il governo cinese è interessato ai problemi dal punto di vista politico, mentre il Vaticano si preoccupa maggiormente dei problemi di natura religiosa e pastorale. Conseguentemente – scrive l’arcivescovo – sono diversi l’ordine e l’urgenza dei problemi posti sul tavolo delle trattative”.