Il Papa e il Patriarca uniti per i cristiani perseguitati. Sul resto si vedrà
Progressi e diffidenze nel dialogo tra cattolici e ortodossi
Roma. A un anno dallo storico incontro dell’Avana tra il Papa di Roma Francesco e il Patriarca di Mosca Kirill, il terreno sul quale la cooperazione s’è intensificata maggiormente è quello relativo alle persecuzioni dei cristiani nel vicino e medio oriente. “Ci teniamo in contatto su questo tema e credo che cercheremo di istituzionalizzare il lavoro comune che stiamo già facendo riguardo il monitoraggio del problema delle persecuzioni a danno dei cristiani in medio oriente e in altre regioni. Credo che sia la cosa più importante che possiamo fare in questo momento”, ha detto domenica il metropolita Hilarion, presidente del dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato moscovita. Hilarion partecipava, con il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, a un incontro che s’è tenuto a Friburgo, in Svizzera, per commemorare l’anniversario della dichiarazione congiunta firmata a Cuba. Dichiarazione che, al di là dei princìpi di base che erano riaffermati, molto diceva riguardo il martirio “di coloro che, a costo della propria vita, testimoniano la verità del Vangelo, preferendo la morte all’apostasia di Cristo”.
Fin da subito, si osservò che questo sarebbe stato il punto sul quale l’intesa tra Mosca e Roma avrebbe fatto segnare i successi maggiori. Dopotutto, ricordava poche settimane fa a questo giornale don Stefano Caprio, docente al Pontificio istituto orientale di Roma, allievo di padre Romano Scalfi e tra i primi sacerdoti cattolici a entrare in Russia dopo lo sfaldamento dell’Unione sovietica, “è interesse di tutti che la situazione nel vicino e medio oriente si stabilizzi, a Mosca come a Washington. E la Santa Sede non può che vedere di buon occhio tale sistemazione”. Anche perché, aggiungeva Caprio, “lasciare alla Russia il controllo del medio oriente è sempre interessato alla chiesa cattolica, soprattutto per ragioni spirituali. Insomma, quella regione è ortodossa”.
Ma sul resto? Passi concreti ne sono stati compiuti in questi dodici mesi? La prudenza domina. Il cardinale Koch parla di “una nuova partenza, orientata verso l’avvenire”, per “una comunione più sentita e relazioni più profonde”. È la realtà a chiederlo, sono le “grandi sfide del mondo attuale”, dalla “crisi dei rifugiati al terrorismo, dai conflitti armati alla persecuzione dei cristiani”. Torna la politica dei piccoli passi e guardare ai progressi anziché ai dossier su cui lo stallo perdura. Calma, dal canto suo, chiede Hilarion: “Non dobbiamo affrettarci a superare le nostre differenze negli ambiti della teologia e della struttura ecclesiale. Sono numerose e devono essere discusse in modo accurato dai teologi. Dobbiamo essere onesti, non dobbiamo nascondere le nostre differenze o evitare di parlarne”. Gli ostacoli ci sono, basti pensare alla “penosa questione dell’uniatismo”, “errori che hanno ancora delle ripercussioni”. La Dichiarazione, non a caso, sottolineava che “il metodo dell’“uniatismo” del passato, inteso come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua chiesa, non è un modo che permette di ristabilire l’unità. L’Ucraina è il nervo scoperto, e non solo per le perplessità dell’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, sull’eventualità di scendere troppo a patti con il patriarcato (e, quindi, con il Cremlino). George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II, ricordava pochi giorni fa in un lungo articolo apparso sulla National Review che proprio il “problema ucraino” rappresenta il principale ostacolo verso la piena riconciliazione tra le due chiese. Non c’è solo la politica di mezzo, dall’annessione della Crimea agli interessi di Mosca nelle regioni orientali di quello che fu il granaio sovietico.
Il problema è spirituale: il progresso nelle relazioni tra Roma e il patriarcato non si otterrà “rispondendo al bullismo ecclesiastico e alla falsificazione storica mascherata da umiltà”. Questo atteggiamento passivo, tra l’altro, “non aiuta neppure l’ortodossia russa a mettere un po’ di spazio tra sé e lo stato russo, sempre che essa voglia farlo”. La priorità oggi, però, sono i cristiani in medio oriente, “che tentano di restare là dove sono nati e dove il cristianesimo esiste da duemila anni. Dobbiamo intraprendere ogni sforzo per difenderli”, ha detto Hilarion, aggiungendo che “possiamo sviluppare tante occasioni di collaborazione e di amicizia, senza essere infedeli alle nostre proprie tradizioni e senza fare concessioni in materia dottrinale ed ecclesiologica”.