Il dilemma della chiesa americana sul credito da concedere a Trump
I dubbi all'interno della Conferenza episcopale americana. Mons. Chaput: “Dovremmo sostenere il presidente”
Roma. Da una parte il Papa che chiede di costruire ponti e non muri, dall’altra Donald Trump. In mezzo, la Conferenza episcopale americana. Strattonata da una parte da chi la vorrebbe in prima fila nel condannare le politiche poco aperturiste del presidente e dall’altra da chi invece punterebbe a farne l’alfiere del nuovo corso che seppellirà gli otto anni obamiani a trazione liberal. Finora, i vescovi se la sono cavata plaudendo alle misure che vanno in direzione dell’agognata libertà religiosa (che non è mera libertà di culto, come la intendeva il democratico Barack Obama) e criticando l’approccio verso le masse di migranti che premono alle frontiere meridionali del paese. Il gioco è risultato facile, soprattutto se a farsi portavoce dello schema è stato mons. José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles (la più grande diocesi d’America) che ha due vantaggi nello specifico contesto storico e sociale in cui ci si trova: è ispanico e conservatore.
Una linea che grosso modo ha tenuto insieme una conferenza episcopale dove sì i conservatori sono in netta maggioranza, ma dove i pastori vicini all’agenda e alle priorità bergogliane sono in ascesa, soprattutto per quanto attiene alla contabilità numerica e al peso specifico all’interno della situazione ecclesiale, dovuto principalmente al ricambio che il Papa sta effettuando anche lì e non solo in Italia: non è un caso che tra i più duri nel contestare le misure trumpiane riguardanti l’immigrazione vi siano stati i neocardinali Blase Cupich e Joseph William Tobin, apprezzati da Francesco e meno dai confratelli americani, risultando esclusi lo scorso novembre dalle short-list per gli incarichi di peso nella conferenza episcopale. Un equilibrio instabile, ha osservato la scorsa settimana sul New York Times l’editorialista Ross Douthat, che prendendo spunto dalla querelle riguardante i rapporti datati 2014 tra Steve Bannon e il cardinale Raymond Leo Burke, ha scritto che “a Roma il populista non è un presidente di destra, bensì un Papa radicale”.
La copertura mediatica “amica”, ha proseguito Douthat, “rappresenta il Pontefice come un uomo di centro, un equivalente ecclesiastico di Angela Merkel, Barack Obama o David Cameron, minacciato da chi sta alla sua destra”. Peccato che le cose stiano diversamente, chiosa l’editorialista: Francesco “è un trumpiano: infrange le norme, trascura le tradizioni, governa per decreto quando esistono regole e strutture che resistono alla sua volontà”. Chi ora esce dal tracciato seguito dalla Conferenza episcopale americana – seppur non con i toni usati da Douthat – mostrandosi propenso a dare credito a Trump, è mons. Charles Chaput, arcivescovo di Philadelphia. Conservatore tenace e grande organizzatore dell’Incontro mondiale delle famiglie del 2015, Chaput ha accusato la stampa locale di essere “troppo ostile” nei confronti di Trump, “ridicolizzando” costantemente la fede religiosa. “E’ incredibile per me vedere quanto la stampa sia ostile a tutto ciò che il presidente fa. Non voglio essere di parte, ma mi pare che se noi davvero siamo seri circa le nostre responsabilità come cittadini, dovremmo sostenere il presidente e augurargli il successo piuttosto che tentare di azzopparlo”. Sia chiaro, dice Chaput: “Naturalmente si può non essere d’accordo, e penso sia importante farlo, in particolare sulle questioni che contano, le questioni morali”.
L’arcivescovo di Philadelphia lancia anche un appello all’Università di Notre Dame, che ha scelto di non invitare Trump per il tradizionale discorso inaugurale, una prassi (e un onore) di solito riservato ai presidenti neoeletti. Il magazine dei gesuiti America ricorda che Chaput non è mai stato trumpiano, anzi: durante la campagna elettorale “è stato un critico sia di Trump sia della sua sfidante, Hillary Clinton” e alla vigilia delle elezioni di novembre ha preso posizione contraria alle proposte politiche del candidato poi risultato vittorioso riguardo l’immigrazione e il divieto all’ingresso di rifugiati. Poi però, finita la campagna elettorale, è il momento del realismo. Il presidente è Trump, piaccia o no, sembra dire Chaput. Ed è con lui che bisogna fare i conti, cercando di guardare anche al lato positivo di quel che potrà fare nel corso del suo quadriennio. Un indizio in tal senso, rimarcato dall’arcivescovo di Philadelphia, è stata la nomina (assai gradita) di Neil Gorsuch a giudice della Corte suprema.