Il Papa e il lavoro
Bollare di peccaminoso un comportamento ordinario dell’impresa libera è un qui pro quo che neppure Francesco può permettersi
I comandamenti sono dieci e l’articolo 18 non risulta. E questa è solo una battuta leggera, come se avessi consumato il mate in compagnia di un amico, è alla Pérez-Díaz una tentata conversazione amichevole con il vescovo di Roma al quale non potrebbe non legarmi, a parte il resto, un’amicizia civica. Ieri passeggiavo per il Laterano e mi sono di nuovo reso conto, come scrisse il Fogliuzzo agli inizi, che la vera riforma della Curia romana è il trasferimento del vescovo a San Giovanni, Santa Marta non basta. Il Vaticano come grande ufficio di rappresentanza e sede ministeriale, ma il vescovo di Roma sta dove sta la cattedra di Pietro, anche lì è un ubi Petrus ibi ecclesia. Fantasticherie, forse. Francesco l’altro giorno si è letteralmente scatenato contro chi licenzia o chiude fabbriche, un “peccato gravissimo” nelle sue parole di censura seguite dall’applauso. Trump fa lo stesso, con questa storia del peccato gravissimo della delocalizzazione ci ha vinto le elezioni in Michigan e continua con questa solfa dei jobs, tremendous amount of jobs, huge, I love you all, I spent some time with the managers of the automotive, i costruttori di automobili hanno capito che i lavori vanno preservati nell’America First, non all’estero. Ma Trump, lo sappiamo, “non è cristiano”, e sopra tutto nasconde da impostore il fatto che i jobs in America Second ci sono, la disoccupazione è così bassa che in realtà c’è il pieno impiego. Infatti in America si può essere licenziati, you are fired, in qualunque momento, niente articolo 18, detto anche No Jobs Act. E vige il capitalismo nella sua fase senile ma sempre giovane.
Ora per mantenere un tono di conversazione amichevole, senza stare a rivendicare farisaici punti di dottrina, l’uscita del Papa è bella, confortante, da applauso, misericordiosa, ma assolutamente incomprensibile. Non si va in paradiso se si crea lavoro, mi spiace per il mio amico Berlusconi ma ci vuole uno sforzo in più, e non si va all’inferno se si taglia il lavoro. Mi sembra ovvio. Ma io sono solo un normale battezzato senza fede personale né confessione praticata, sono parte del popolo liberale di Dio, una fetta minoritaria, sopra tutto nell’Argentina di Juan Domingo Perón, sindacalista e tiranno che sul lavoro non scherzava, peccato gravissimo. Ma beviamo ancora un sorso di mate. E auguriamoci che il prossimo Pontefice non venga dal Venezuela, dove le teorie tardoperoniste e neocastriste sulla dignità del lavoro e delle risorse nazionali, Venezuela First, hanno provocato una sciagura che le piaghe d’Egitto al confronto sono un balsamo.
La dottrina sociale della chiesa, alla quale Francesco si riferisce come a una sorgente di ispirazione continua, dice che la proprietà privata si giustifica con il fatto che, laddove scompaia, tutto diventa dello stato, tutto è ricondotto a un potere non sociale, non direttamente sociale. Alla fine lo stato si prende anche la famiglia, la coscienza, l’individuo, il popolo con tutta la sua teologia. Certo, e in questo Francesco ha tutte le ragioni, con il lavoro bisogna andarci piano, con i guanti di velluto. E’ vero che a esso è collegata la dignità del lavoratore, del percettore di reddito, del creatore di valore sociale, e dunque non è che si può trattare la faccenda in base al Dio denaro e alla logica dello scarto, figuriamoci, Giorgio La Pira è stato di insegnamento per tutti anche con le sue demagogueries. Ma chi licenzia un lavoratore produttivo, inserito in un ciclo che produce salario e profitto e determina liberamente i prezzi, per dirla con Marx, Karl, quello di Treviri dell’Ottocento, non il cardinale oggi in voga, è uno strano animale, e non fa parte del bestiario del capitalismo.
La questione riguarda i posti che non si giustificano, la mobilità che va realizzata, sociale, territoriale, di qualifica e di formazione professionale, la questione riguarda una logica del profitto che discende naturalmente e giuridicamente, o comunque canonicamente, dal meccanismo di funzionamento di quel rapporto sociale di produzione che è il capitalismo. Che non è il paradiso in terra ma neanche il suo opposto. Il Papa fa benissimo a difendere con le sue apologie sociali il lavoro e i lavoratori, ma dovrebbe stare attento a non trasformare il materialismo storico in moralismo storico, se davvero gli interessa essere anche un po’ marxista, come spesso civetta con il direttore di Civiltà Cattolica, il sulfureo gesuita che scrive il migliore italiano oggi disponibile su piazza. Peccato, reato (e leggi dell’economia) devono restare distinti, è una lezione del realismo dottrinale kantiano, una acquisizione importante del mondo moderno e illuminato a cui il Papa dice di volersi rivolgere ogni due per tre. Avesse rilanciato l’ozio dei popoli, il reddito universale di cittadinanza, ancora capisco. Ma bollare di peccaminoso un comportamento ordinario dell’impresa libera, quando si tratti di posti di lavoro improduttivi, questo è un altro paio di maniche. E’ un qui pro quo, un equivoco in cattivo sindacalese, lo sapeva anche un gigante non peronista della lotta sindacale come Giuseppe Di Vittorio, i lavoratori devono farsi parte dirigente della società e provare a farla funzionare secondo certe regole che allargano la base produttiva e creano ricchezza, non sono una massa di manovra per la demagogia laburista old fashion o per le manipolazioni protezioniste di impostori di passo a poco prezzo. E non parlo qui del Papa, ovviamente.
Editoriali
Mancavano giusto le lodi papali all'Iran
l'anticipazione