La lenta estinzione degli atei è ora certificata anche dalla scienza
Non solo demografia, c'entra la genetica. Uno studio apparso sulla rivista Evolutionary Psychological Science
Roma. Gli atei sono destinati a estinguersi, lo dice la scienza. A metterlo per iscritto in un articolo apparso sulla rivista Evolutionary Psychological Science sono quattro studiosi di fama mondiale: Lee Ellis, Anthony W. Hoskin, Edward Dutton e Helmuth Nyborg. Quattromila interviste condotte tra la Malesia e gli Stati Uniti hanno dimostrato che gli atei fanno meno figli rispetto a chi crede nell’esistenza di un dio.
“Per oltre un secolo – si legge nelle conclusioni della ricerca – gli scienziati sociali hanno previsto il declino dei credo religiosi e la loro sostituzione con prospettive più scientifiche e/o naturalistiche. Una previsione conosciuta come l’ipotesi della secolarizzazione” inarrestabile. Già da qualche decennio, i numeri hanno dimostrato quanto tale ipotesi fosse errata. Ora si fa un passo ulteriore, dimostrando che a divenire sempre più minoranza saranno quanti non si riconoscono in alcuna fede. “È ironico pensare che i metodi contraccettivi siano stati sviluppati in primo luogo da atei e che questi metodi stiano contribuendo, ora, a diminuire la rappresentanza degli atei nelle future generazioni”, spiegano gli autori dello studio. Si prenda l’esempio della Malesia: gli atei malesi hanno 1,5 fratelli in meno rispetto alla media generale. Negli Stati Uniti, a migliaia di chilometri di distanza, la tendenza si conferma, anche se con numeri più risicati: gli studenti intervistati non affiliati ad alcuna religione hanno meno fratelli rispetto alla media. Lo studio, però, va oltre, spingendosi a sostenere che la religiosità è ereditaria.
Certo, il determinato contesto culturale in cui si cresce gioca un ruolo notevole, la visione del mondo che si apprende in famiglia lascia tracce, ma esisterebbe anche una base genetica. Coloro che hanno una “più alta capacità” di credere in un dio sono dotati di determinati geni che, con lo sviluppo delle moderne tecniche di controllo delle nascite e della fertilità hanno contribuito a dare un certo vantaggio (genetico, appunto) ai credenti.
I risultati dimostrano che la fertilità media dei genitori varia in modo notevole a seconda dei gruppi confessionali: i musulmani, ad esempio, si confermano “più religiosi” e più fertili, mentre i buddisti sono “meno religiosi” e meno fertili. Dati che, tra le altre cose, sono in linea con quanto pubblicato poche settimane fa dall’autorevole Pew Research Center di Washington, che sottolineava la crescita numerica dei fedeli all’islam e al cristianesimo e la sofferenza di buddismo ed ebraismo. In ogni caso, “tutti i risultati mostrano con evidenza – si legge nel rapporto – che la religiosità e la fecondità sono tratti ereditari” e, di conseguenza, è possibile affermare che “le tendenze verso la secolarizzazione sono attualmente controbilanciate da tendenze genetiche e riproduttive”. Da qui ne consegue che “l’ateismo subirà un declino costante per tutto il secolo, anche nei paesi industriali e perfino in Europa”. Tra i primi a sollevare la questione, in un libro pubblicato nel 2012 (Gentili senza cortile, Lussografica editore), era stato il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni), che oggi – confermando quanto emerge dall’articolo – spiega che “nel lungo periodo le persone religiose, che fanno più figli, aumenteranno per forza in percentuale. Sono anche più brave a socializzare i figli nella fede”. Una delle conseguenze – non così ovvia come pure potrebbe apparire, dice Introvigne – “è che ci saranno probabilmente più persone religiose per una pura questione demografica. Come dice lo studio citato, gli atei alla fine rischieranno di estinguersi perché fanno pochi figli”.
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