Il messaggio del Papa per la crisi in Venezuela, difficile da risolvere anche per il Vaticano
Telefonata del cardinale Parolin "a nome del Papa" all'arcivescovo di Caracas. Il difficile ruolo di "facilitazione" della Santa Sede nel dialogo tra le parti. Gli attacchi al segretario di stato e i punti fermi di Francesco
Roma. Nella tarda serata di ieri, la Conferenza episcopale del Venezuela ha pubblicato uno stringato comunicato in cui si dà conto della telefonata “a nome del Papa” che la scorsa settimana il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, ha fatto al cardinale Jorge Urosa Savino, arcivescovo di Caracas. Il Pontefice, si legge nella Nota, “ha inviato un saluto di solidarietà e fratellanza all’arcivescovo dopo le aggressioni subite recentemente da parte di gruppi radicali ‘anti religiosi’ e ‘anti ecclesiastici’ “che hanno turbato la celebrazione della messa nella Basilica di Santa Teresa, lo scorso 12 aprile. Un tweet, sempre della locale Conferenza episcopale chiariva che la solidarietà riguardava anche “la grave crisi che soffre il popolo venezuelano”.
E’ di ieri, infatti, l’ultimo bilancio delle vittime causate dalla protesta contro il presidente Nicolás Maduro: ventisei morti in tre settimane, con i generi di prima necessità ormai introvabili e bande violente che controllano vaste zone delle città. Due le richieste: elezioni democratiche e misure rapide per far fronte alla gravissima crisi economica, che ha portato l’inflazione al cinquecento per cento. Dal governo si risponde con la repressione.
Di recente, alcuni paesi dell’Organizzazione degli stati americani hanno richiesto un intervento del Papa per mediare tra le parti. In realtà, la Santa Sede da tempo è impegnata nel cercare di avvicinare il fronte governativo e le opposizioni (variegate e frastagliate anche al loro interno). Due incontri si sono svolti lo scorso autunno a Caracas, mentre il terzo è fallito a causa dell’aggravarsi della crisi. A determinare lo stop, tra le altre cose, la lettera inviata il 1° dicembre dal cardinale Parolin in cui si ponevano chiare condizioni affinché il Vaticano potesse farsi facilitatore “concreto”, evitando di “farsi usare” dalle parti in contesa. Il segretario di stato chiedeva l’autorizzazione all’invio di assistenza umanitaria, la liberazione dei prigionieri politici, un calendario elettorale definito, la restituzione delle prerogative al Parlamento. Immediata la replica del governo venezuelano con il fedelissimo di Maduro, Diosdado Cabello, che invitava Parolin “a non immischiarsi negli affari interni” del paese sudamericano, definendolo “un alleato dell’oligarchia imperialista”.
Maduro, poi, che pure in Vaticano (e dal Papa) era stato ricevuto pochi mesi prima, rintuzzava la polemica contro il capo della diplomazia della Santa Sede. Cabello, infine, ci teneva a fare un distinguo: “Il Papa non ha mandato nessuna lettera, è stato Parolin a farlo”. L’obiettivo, chiarissimo, da colpire è proprio il segretario di stato, anche perché pochi come lui nelle sacre stanze conoscono la situazione del paese: Parolin, infatti, a Caracas è stato nunzio apostolico dal 2009 al 2013. E’ anche per questo che il ruolo attivo d’Oltretevere, negli ultimi mesi, è andato affievolendosi. Nella lettera, il segretario di stato chiariva che “la Santa sede sarebbe molto felice se la natura della sua presenza nel dialogo fosse ben chiara per tutti, da tutti rispettata, promossa e, se necessario, resa pubblica (anche dalle parti), dinanzi a interpretazioni equivoche o interessate”.
Nel Messaggio Urbi et orbi di Pasqua, il Papa – senza mai citare il Venezuela – auspicava, riferendosi all’America latina, che andassero a buon fine gli sforzi di "si impegnano a garantire il bene comune delle società, talvolta segnate da tensioni politiche e sociali che in alcuni casi sono sfociate in violenza".
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