Il vescovo "da rieducare" è un macigno sul negoziato Pechino-Vaticano
Mentre dialoga con la Cina sul riconoscimento dei vescovi scelti o accettati da Roma, la Santa Sede segue con “grave preoccupazione” la situazione del mons. Shao Zhumin
Roma. Erano tre anni che la Santa Sede non interveniva, pubblicamente, per deplorare la rimozione coatta di un vescovo in Cina. Lunedì, il direttore della Sala stampa, Greg Burke, ha letto ai giornalisti una breve dichiarazione in cui si dà conto della “grave preoccupazione” con cui la Santa Sede segue “la situazione personale di mons. Pietro Shao Zhumin, vescovo di Wenzhou, forzatamente allontanato dalla sua sede episcopale ormai da tempo”. Ma nell’uso equilibrato delle parole, data la delicatezza estrema della questione, la dichiarazione vaticana dice altro, e cioè che la Santa Sede è “profondamente addolorata per questo e per altri simili episodi che purtroppo non facilitano cammini di intendimento”. Il riferimento, chiaro seppur sfumato nelle forme del linguaggio proprio della diplomazia, è all’accordo in via di negoziazione per il riconoscimento da parte di Pechino dei vescovi scelti o accettati da Roma (la forma si vedrà).
Mons. Shao Zhumin è sparito il 18 maggio scorso, dopo essere stato convocato da funzionari del ministero degli Affari religiosi dello Zhejang. L’agenzia di stampa cattolica Ucanews ha riferito che il vescovo ha chiesto, subito dopo l’arresto, che gli fosse portato del vino per celebrare la messa. Un mese dopo, il 16 giugno, lo si è rivisto all’aeroporto di Wenzhou. Poi, più nulla. Il presule non fa parte dell’Associazione patriottica, la “chiesa di stato” che nella celebre Lettera ai cattolici cinesi del 2007, Roma ha definito “incompatibile con la dottrina cattolica”. Anche per questo, diverse fonti ipotizzano che il vescovo sia ora impegnato in speciali corsi di rieducazione affinché – come accaduto a diversi altri presuli in passato, anche di recente – si conformi ai desiderata governativi ed entri nell’Associazione patriottica. Mons. Shao fu confermato dal Vaticano vescovo di Wenzhou lo scorso 21 settembre, in seguito alla morte del predecessore, il vescovo Vincent Zhu Weifang. Considerata però la non appartenenza alla cosiddetta chiesa di stato, il vescovo legittimo fin da subito ha visto frapporsi numerosi ostacoli al perseguimento dell’azione pastorale. Innanzitutto, il primo arresto (con altri tre sacerdoti) appena resa nota la morte di mons. Zhu Weifang. Obiettivo dichiarato: impedirgli di presiedere i funerali nella cattedrale. Quindi, il successivo fermo ad aprile, una settimana prima di Pasqua così da evitare che il vescovo non riconosciuto potesse celebrare il Triduo. Nei giorni scorsi, a chiederne la liberazione era stato l’ambasciatore tedesco a Pechino, Michael Clauss, che pur sottolineando “i progressi nel miglioramento” della situazione riguardante la chiesa cattolica, aggiungeva che “vi sono anche dei passi indietro nel garantire la libertà religiosa”. Il riferimento del diplomatico era proprio al “modo in cui è trattato dalle autorità il vescovo Shao Zhumin”, al quale “si dovrebbe garantire la piena libertà di movimento”. Wenzhou è terra dove la persecuzione anticristiana è forte. Un paio d’anni fa, è proprio qui che il segretario locale del partito fece rimuovere le croci dagli edifici di culto: “Ce ne sono troppe”, disse il funzionario, che ordinò anche di far sparire i portali della chiesa di Panshi (la chiesa “della roccia”), rei di ostentare la fede. Nel solo Zhejang, tra il 2014 e il 2015, la spoliazione ha toccato 425 chiese. E’ in questo contesto che si inserisce il complicato negoziato tra la Santa Sede e il governo cinese, che va avanti ormai da tempo tra difficoltà vecchie e insidie nuove (il caso di mons. Shao Zhumin, ad esempio).
Oltretevere la prudenza è sempre stata d’obbligo, in particolare da parte del segretario di stato Pietro Parolin, che da grande conoscitore della questione cinese ha sempre predicato calma, ammettendo sì “lo spirito di buona volontà” che caratterizza i contatti tra le parti, ma riconoscendo altresì che “il cammino è lungo”, considerata la mole enorme di incomprensioni, rotture, silenzi e incidenti che si è sedimentata in più di sessant’anni di storia. Lo stesso Pontefice, ogni volta che viene interrogato a braccio in merito al dossier cinese, si limita all’essenziale. Dichiarazioni d’amore per il “caro popolo cinese”, il sogno di recarsi in Cina “anche domani”, la volontà di guardare non al passato, come disse nell’ampia intervista concessa ad Asia Times: “Ogni popolo deve riconciliarsi con la propria storia quale suo cammino, con successi ed errori. E questa riconciliazione con la propria storia porta molta maturità, molta crescita”.
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